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4 Marzo 2009

Gli esuli a volte ritornano

Autore: Ilvo Diamanti
Fonte: La Repubblica

Capita,
ogni tanto, che una Mappa – o una Bussola – susciti curiosità,
interesse, magari irritazione. Anche se la reazione più consueta è
normalmente più modesta. Perché io non so proporre soluzioni, lanciare
parole d’ordine, indicare obiettivi. Mi sento a disagio, quando ci
provo, anche nella vita privata. Preferisco cercare e guardare. Anche –
anzi soprattutto – quel che sta sotto ai nostri – miei – occhi. Ma non
ci facciamo caso. Più che altro per pigrizia. Oppure per auto-difesa.
Perche genera disagio.

Così è avvenuto anche questa volta, di
fronte a un fenomeno diffuso, che incontro da tempo fra le persone che
frequento. Una sindrome, che colpisce elettori di sinistra: radicale,
riformista e moderata. Si esprime attraverso un dispiacere senza nome,
un senso di spaesamento mischiato a impotenza. E alla sensazione di
solitudine. Di estraneità.

Ne aveva parlato Ezio Mauro, alcune
settimane fa, evocando la “secessione silenziosa di quei cittadini che
si disconnettono dal discorso pubblico e attraversano una linea che li
porta in qualche modo nella clandestinità politica”. Sono gli “esuli in
patria” che ho cercato di descrivere e misurare nella mia Mappa di
domenica scorsa. I quali mi hanno scritto in molti attraverso la
redazione di Repubblica ma anche direttamente, al mio indirizzo
e-mail dell’Università di Urbino. Per cui ho pensato di proporre alcuni
dei messaggi che mi sono giunti a una lettura più ampia.

Perché,
dopo averne parlato io, può essere utile far parlare direttamente loro.
Gli esuli. Sentirne le ragioni, i sentimenti e i risentimenti. Le
pubblico senza firma, per rispettare la privacy di chi ha voluto
raccontarmi il proprio malessere personale, quasi come a un confessore
(come mi ha scritto un lettore). Peraltro, per i motivi che ho
suggerito, non intendo “dare risposte”. Non ne sarei in grado. E non ho
intenzione di trasformarmi da analista in terapeuta. D’altronde,
l’analisi può funzionare da terapia quando ci permette di definire il
contesto da cui origina il nostro disagio.

In questa sede mi limito ad alcune – poche – notazioni, che ricavo dai messaggi.

1.
La prima osservazione è il senso sollievo – misto a un po’ di rabbia –
suscitato dal trovarsi, quasi, di fronte allo specchio. In grado di
riconoscersi e di venire riconosciuti. Genera sollievo. Perché
diventare “invisibili”, anche se per scelta, è, comunque, frustrante.
Come se ci si nascondesse non per scomparire ma, al contrario, per
diventare più evidenti. Si divenisse invisibili per essere più
visibili. Si scegliesse il silenzio per essere ascoltati. Per produrre
un silenzio fragoroso.

2. Venire definiti e definirsi “esuli”
può servire, quindi, a dichiarare il desiderio – e il diritto – di
tornare. Di rientrare in patria. Non tanto nel Pd: ma nella società
civile. D’altra parte, come scrive un lettore: “Oggi sono trasparente
ai sondaggi ma aspetto di poter votare e di sicuro esprimerò il mio
voto”. Questo è un altro aspetto che ricorre in alcuni messaggi: solo
una quota limitata degli esuli è fatta di astensionisti patologici.
Pochi, peraltro, hanno cambiato voto, a favore dell’IdV. In maggioranza
sono, invece, votanti “potenziali”. Potrebbero votare ancora. Alcuni lo
faranno di certo. Come annota un altro (e)lettore: “Il quadro degli
ex-democratici descrive alla perfezione ciò che provo io (…) in
questo periodo. L’unica cosa che faccio di diverso è votare ancora per
il PD, tanto per arginare un po’ la frana. Ma senza speranza. Il cuore
però è sempre pronto a risollevarsi, nessun fuoco sul camino è mai
completamente spento. Si deve solo soffiare sotto nel posto giusto”.

3.
Gli esuli, infatti, non sono stranieri. Si sentono semmai “ex
cittadini” (come si descrive un lettore). Perché si sentono estranei ai
valori e agli orientamenti pubblici dominanti. Espressi dai leader e
dalle forze politiche che governano, con il sostegno della maggioranza
degli elettori. Rispetto a cui gli esuli si sentono “altri”.

Il che suggerisce due altre osservazioni.

4.
La prima riguarda la democrazia. Che si fonda sulla libera espressione
del voto. Sulle elezioni. Elemento necessario ma non sufficiente.
Tuttavia, considerare la maggioranza con fastidio, guardarli come
fossero degli abusivi, o reciprocamente: considerare se stessi
“estranei”: non aiuta. A conquistare la maggioranza. Occorre, almeno,
interrogarsi sul perché i valori e gli orientamenti di cui si è
portatori siano “minoritari”. Senza dedurne, a priori, che ciò avvenga
per ragioni di natura antropologica. Perché i “nostri”, perché “noi”
siamo migliori degli altri. Avessero pensato e agito in questo modo i
cittadini americani dopo 8 anni di presidenza repubblicana, alla guida
di Bush e dei teocon; se quelli che negli Usa da 8 anni – ancora 6 mesi
fa – erano minoranza avessero scelto l’esilio – in patria – oggi alla
presidenza non ci sarebbe Obama.
E poi a chi si sente naturaliter
minoranza, in Italia, occorre rammentare che 3 anni fa non era così.
Alle elezioni del 2006 lo schieramento di centrosinistra, l’Unione,
conquistò la maggioranza. O forse no: pareggiò. Ciò significa, però,
che in quel referendum pro o contro Berlusconi – come avviene in ogni
elezioni dal 1994 ad oggi – metà del paese, di questo paese votò
contro. E che metà degli italiani è, quindi, “potenzialmente”
all’opposizione. Metà. Oggi, se i sondaggi dicessero il vero – e spesso
non è così – le forze di opposizione, tutte insieme, raggiungerebbero
il 35-37%: 13 punti percentuali e circa 5 milioni di voti in meno. In
questa cifra il problema. Il vuoto, ma anche lo spazio intorno a chi
vorrebbe un’Italia politica (e non solo politica) diversa.

5.
L’altra osservazione, però, riguarda la cittadinanza politica, che
dipende direttamente dagli attori politici. I partiti, i leader. In
passato, nella prima Repubblica – e per quasi cinquant’anni – il 40%
dei cittadini è stato all’opposizione senza possibilità di diventare
maggioranza. Ma senza mai sentirsi straniera. E senza mai perdere la
speranza. Allora, però, i partiti offrivano valori, identità,
organizzazione, socializzazione. E ciò garantiva appartenenza, senso.
Cittadinanza. Oggi non è più così. Anche se non si può dire che gli
elettori del Pd non abbiano espresso il lor sostegno a questo progetto.
Visto il risultato elettorale di un anno fa. Vista la grande
partecipazione che ha caratterizzato le primarie. Semmai, il problema
sta nello scarto fra un investimento tanto generoso e una risposta
altrettanto povera. Da ciò la delusione, la secessione silenziosa. Per
ri-conquistare gli esuli, i gruppi dirigenti del Pd dovrebbero
rinunciare ai giochi di palazzo, a parlar di se stessi per “parlare
nuovamente alle persone”, come ha scritto Michele Serra. “Basterebbe
una politica copiata da un noto estremista. Barack Obama”, conclude un
altro lettore. Ma forse anche meno. Una politica.