27 Gennaio 2006
Giuliano Amato: «Islam e democrazia, le elezioni non bastano»
Autore: Aldo Cazzullo
Fonte: Corriere della Sera
Presidente Amato, dalla Palestina non giungono buone notizie.
«No. Si allunga la lista dei Paesi in cui le elezioni, ritenute il fulcro
della democrazia, portano al potere gruppi che democratici non sono, hanno usato
violenza o si dichiarano pronti a usarla. Questa tendenza cominciò all’inizio
del ciclo storico che stiamo vivendo, con il rinvio delle elezioni algerine cui
seguì il colpo di Stato e la guerra civile. L’Egitto è stato ed è in
ebollizione, a ogni voto cresce un movimento di cui si teme l’ascesa al potere,
quello dei Fratelli musulmani. Per molti è stato una sorpresa l’esito delle
elezioni iraniane: si era consapevoli che il riformismo di Khatami fosse ormai
debole, ma si credeva nel successo di una figura più collaudata e ritenuta più
affidabile come Rafsanjani. E ora in Palestina vince un movimento inserito fin
dal 2003 nella lista dei gruppi terroristici. È giusto chiedersi: che cos’è che
non va? Dobbiamo concludere che ci sono Paesi poco adatti alla democrazia? O
dobbiamo piuttosto chiederci, e chiedere ai nostri amici americani, che cosa
intendiamo per democrazia?».
Lei che cosa intende?
«Un grande orientale come Amartya Sen ha messo in dubbio che la democrazia
coincida con un processo elettorale. Credo abbia ragione. Dovremmo saperlo bene,
visto che ce lo ha ripetuto più volte Norberto Bobbio. Una democrazia si
identifica certo con un sistema elettivo dei dirigenti e con il principio di
maggioranza, ma anche con le garanzie delle minoranze, il radicamento delle
libertà fondamentali e il rispetto della persona, che implica la scelta della
pace in luogo della violenza. Esistono quindi requisiti sostanziali e non solo
processuali. Noi, che vorremmo che la democrazia prendesse piede ovunque,
dobbiamo chiederci se facciamo abbastanza per garantirne i fondamenti;
altrimenti se ha senso, quando dipende da noi, far avanzare le procedure
elettorali in mancanza delle altre condizioni. Perché in tal caso andremmo
incontro ad altre amare sorprese».
Sta dicendo che, piuttosto che votare in certe condizioni e con certi
risultati, è meglio non votare?
«Lo dico consapevolmente. Spesso è anche una nostra responsabilità fare il
possibile perché esistano le condizioni necessarie. Nel caso palestinese, il
risultato di oggi è stato favorito più che prevenuto».
Favorito?
«I nodi vengono sempre al pettine. La politica d’Israele in tutti questi
anni, pur fortemente motivata dalla difesa della propria sopravvivenza, è spesso
andata oltre il segno, con dure rappresaglie mai sufficientemente mirate che
hanno portato alla morte di civili e di bambini. Tutto questo lascia un segno
terribile in una popolazione debole e sottoposta a continui choc. Poi c’è stata
la costruzione del muro. A Sharon va giustamente ogni riconoscimento per aver
cominciato a sgomberare i Territori. Ma quanti ettari quadrati dei Territori
sono stati occupati con l’incentivo del governo? E allora cento ettari occupati
pesano più di un ettaro dis-occupato».
Tutta colpa di Israele?
«No. L’Autorità palestinese non è stata capace di farsi percepire come
effettiva autorità di governo. Hamas, cui non sono mancate le risorse
finanziarie, ha fornito i servizi che l’Autorità non forniva. Ce ne siamo
preoccupati abbastanza? E ci siamo preoccupati della sorte dei denari che noi
europei abbiamo versato ai palestinesi? Una parte è servita a finanziare un
sistema educativo in cui circola una letteratura pesantemente antiebraica, non
diversa da quella della Germania anni 30. Questo ci conduce a ripensare alla
figura di Arafat e alla sua ambiguità. Forse era inevitabile che l’eroe della
guerra non potesse essere l’eroe della pace. Resta il fatto che sotto di lui
sono cresciuti per anni Fatah e Hamas, la mano destra e la mano sinistra di una
Palestina che ha condannato se stessa a dover scegliere tra l’una e
l’altra».
La sinistra italiana non ha forse le sue responsabilità?
«La sinistra italiana ha avuto un rapporto molto stretto con i palestinesi,
anche se certo non da sola: penso in particolare alla Spagna e alla Francia. La
realtà è che l’Europa, più vicina ai palestinesi, e gli Stati Uniti, più vicini
a Israele, non hanno esercitato da un lato e dall’altro l’influenza che
avrebbero dovuto. Spesso Washington è stata condizionata dalla lobby ebraica
americana più di quanto accadesse nella direzione inversa: più che influire su
Israele, gli Usa erano influenzati dalle posizioni più estreme presenti in
Israele. Questo non è accaduto con Clinton ma con altre amministrazioni,
compresa questa. Mentre l’Europa finanziava Arafat, che non organizzava
l’Autorità ma ha continuato a usare il contante sino alla sua morte; per non
insistere sulla letteratura antiebraica».
Che cosa accadrà ora? Come deve muoversi l’Europa?
«Già due anni fa una commissione, di cui facevano parte occidentali
illustri come Felipe Gonzalez, auspicava l’ingresso di Hamas nel circuito
democratico. Non sarebbe la prima volta che un movimento armato si purifica
nella democrazia. Sta accadendo agli albanesi in Macedonia, ad esempio».
In Iran la democrazia ha portato al potere un estremista antisemita.
«In Iran, di fronte a un regime già stabilito, era molto meno quello che
potevamo fare. Ma la lezione resta la medesima: c’è un limite inesorabile alla
procedura elettorale, il che vale anche per un Paese come l’Iran, che pure ha
una élite crescente democratica e filoccidentale. Ma l’estremismo, che a quanto
mi risulta è minoritario tra gli stessi religiosi, fa leva sulle masse meno
preparate dell’elettorato».
Si parla di sanzioni.
«Non credo nello strumento delle sanzioni: hanno sempre rafforzato anziché
indebolire le dittature. Sono fautore di una tesi diversa: noi da tempo avremmo
dovuto offrire all’Iran quegli investimenti stranieri di cui ha bisogno,
condizionandoli come minimo alla chiarezza sul nucleare. Un bastone sotto forma
di ritiro di una grossa carota».
Anche in Iraq si è votato, dopo l’intervento americano. Qualcuno ne ha
visto una conseguenza anche nella riscossa antisiriana del Libano.
«Questo sarebbe accaduto comunque. Il Libano è un Paese particolarmente
evoluto, e i libanesi si sarebbero ribellati in ogni caso al dominio siriano.
Quanto all’Iraq, l’intervento americano fu un errore anche perché mancò la
previsione degli effetti. Forse è troppo dire che gli americani si aspettavano
di essere accolti come a Roma nel giugno del ’44. Certo si aspettavano che,
rimosso il dittatore, le elezioni avrebbero risolto il problema. Ma lo dovevano
sapere che i sunniti, i quali avevano governato l’Iraq da soli e per di più
attraverso una dittatura, sarebbero divenuti una minoranza che gli sciiti
avrebbero escluso».
A sinistra è in corso un dibattito sulla dottrina dell’esportazione della
democrazia. Già un anno fa al congresso Ds D’Alema spiegava di preferirla
all’appoggio alle dittature militari, come negli anni 70.
«Questo è giusto. Il paradosso è che sia stata l’amministrazione Bush a
farcelo ricordare. Ma l’autodeterminazione dei popoli è da sempre un tema caro
alla sinistra; penso a una personalità come Lelio Basso e al suo tribunale
Russell. Un conto però è sostenere l’autodeterminazione dei popoli, un altro
imporla dall’esterno con un intervento militare. Questo non ci deve impedire di
riconoscere che noi tutti abbiamo sonnecchiato a lungo, mentre perduravano
regimi autoritari sotto cui soffiava la crescita dei fratelli musulmani e di
altri estremisti. Il lavoro che persone come Emma Bonino facevano, e suggerivano
di fare, andava e va preso molto sul serio».