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9 Maggio 2001

Giochetti elettorali

Autore: Curzio Maltese
Fonte: la Repubblica


“L’ITALIA non è una repubblica delle banane”, ha detto Agnelli. Sagge parole. Ma forse, più che alla stampa estera, che ci prende fin troppo sul serio, bisognerebbe ripeterle a noi stessi, a noi italiani. Se non siamo una repubblica delle banane, qualcuno dovrà spiegarci, per esempio, il senso del teatrino terzomondista inscenato ieri sera a Porta a Porta da un Berlusconi in vena di trovate. Fra tutte, la firma del “contratto con gli italiani”. Al grido originale di “basta con la vecchia politica”, Silvio Berlusconi si è fatto portare nello studio di Vespa, di cui dispone come crede, una scrivania di ciliegio che si trovava lì per caso, una penna e un calamaio.
 
Poi ha convertito due direttori di giornale venuti per intervistarlo in compagni di giochi e ha firmato solennemente un pataccone da affidare alle grate mani del conduttore.
Dentro c’era il «contratto con gli italiani», l’impegno del padrone di All Iberian a non ripresentarsi nel 2006 se non avrà mantenuto cinque sacri impegni. Il primo è l’abbattimento del prelievo fiscale al 23 per cento, con un massimo del 33 per i redditi sopra i duecento milioni, a proposito dell’Europa ha già detto a chiare lettere di non voler sentir neppure parlare. Il resto è vita.
Sono scene già viste nel Brasile di Collor, il presidente da telenovelas. Ma l’Europa non si deve preoccupare: «Non siamo una repubblica delle banane».
Una volta al governo, Berlusconi farà quello che può, pena la cacciata dall’Europa, e non quel che promette. Sono soltanto vanterie innocue. Dovrebbe capirlo anche “Newsweek”, che si ostina a scrivere «se un tempo la spacconeria dell’uomo che ama farsi chiamare il Cavaliere avrebbe divertito i vicini, oggi in Italia non è tempo di gioco».
Ma no, in Italia è sempre tempo di giochi, tanto più sotto elezioni. E’ la nostra natura ludica. Gli italiani amano farsi intrattenere e chi lo sa meglio del padrone di tre televisioni? Erano uno scherzo anche le offese e le minacce alla Costituzione («comunista»), alla Consulta («comunista»), agli avversari, alla stampa estera, al vecchio Montanelli, todos comunistas, e al povero D’Antona, in fondo comunista pure lui.
Già che si trova, Berlusconi approfitta delle elezioni per giocare anche in Borsa. Un giorno fa viaggiare notizie di una vendita di Mediaset e i titoli salgono. Poi si scopre che è un bluff e il titolo crolla. Ma Berlusconi il giorno dopo, sempre da Vespa, annuncia la probabile vendita di Mediolanum, e la giostra riprende. Per vedere di nascosto l’effetto che fa agli azionisti. Che spasso.
Son cose normali, per carità, che accadono nelle migliori democrazie. Non sapevate che Blair, Jospin o Aznar, quando sono in campagna elettorale, annunciano vendite o acquisti delle società di cui possiedono azioni? Mica siamo una repubblica delle banane.
Sempre nello spensierato clima del «facciamo un po’ come ci pare», Berlusconi ha rivelato la lista dei ministri del suo prossimo e immancabile, dice lui, governo. Fra questi, la novità di Luca di Montezemolo, ministro forse dello sport o del commercio estero, o dello sport estero o del commercio sportivo, tanto basta la salute.
Al momento non si sa se la notizia sia vera o falsa. Bisogna stare attenti perché se Berlusconi ha negato di avere 64 società all’estero, che invece aveva, in compenso finora ha nominato ministri una sessantina di personalità che non aveva. Gli hanno detto di no Mario Monti e Antonio Fazio, Renato Ruggero, Umberto Veronesi e Suni Agnelli. Può darsi che dopo tanti rifiuti abbia fatto cambiare colore al manager delle «rosse» ed enfant gaté di Agnelli.
Sono anni che Berlusconi cerca di entrare nei salotti buoni del capitalismo. Con quelli internazionali, come fa capire ogni giorno la stampa estera, ha chiuso. Con il salotto meno buono delle grandi famiglie del capitalismo italiano ci prova. Conquistare Letizia Moratti o Luca di Montezemolo alla causa non significa esserci riuscito. Sono due personaggi in cerca d’autore, che evocano certo mondi finora distanti dai berluscones, ma ne rappresentano soltanto l’immagine più patinata e superficiale.
Ma per chi vive d’immagine e marketing non è poco. Qualcosa in ogni caso si è mosso nelle grandi famiglie del capitalismo italiano, che nel 94 avevano tenuto un atteggiamento distante, se non sprezzante, nei confronti della prima avventura berlusconiana. Qualcosa o molto è cambiato nella Confindustria, allora di stretta osservanza agnelliana, che aveva lasciato nel 94 solo il Cavaliere davanti agli scioperi e alla rottura della pace sociale. E’ come se fosse sbriciolato l’argine democratico, ben saldo invece nel mondo dell'”Economist”, che ha impedito al capitalismo italiano di saltare sul carro del vincitore, in cambio della promessa di un liberismo senza regole, di un governo padronale dell’economia sotto la vernice del populismo televisivo.
D’altra parte non c’è più un Enrico Cuccia, con il suo passato di antifascista, l’intelligenza, la diffidenza di italiano serio per chi gioca a fare la storia.