Onorevole Fassino, è soddisfatto del dibattito che si è svolto ad Orvieto? L´appuntamento si era caricato di grandi aspettative ma anche di molti interrogativi, tanto che qualcuno aveva ipotizzato un rinvio.
«Da Orvieto è finalmente cominciato un viaggio, anche se è vero che alla vigila non sembrava così facile. In qualche modo si è riprodotto lo scenario delle primarie di un anno fa, quando in molti frenavano, avanzavano preoccupazioni su quanti si sarebbero recati alle urne, ironizzavano sull´utilità stessa dell´iniziativa: poi quattro milioni di persone ci hanno dato una risposta chiara e forte. Ecco, da questi due giorni di discussione arriva un messaggio altrettanto vigoroso: il Partito democratico si farà e la nostra ambizione di dare al paese una forza politica riformatrice, progressista capace di dare rappresentanza politica unitaria alle diverse culture riformiste non è velleitaria. Per la prima volta il gruppo dirigente largo dell´Ulivo si è riunito non per discutere se realizzare questo progetto ma per confrontarsi sul perché e su come deve nascere la nuova formazione. Oggi non si troverebbe più qualcuno che dica: rinviamo l´appuntamento. La sfida sta nello spiegare questo lavoro alla società, cominciando dal chiarire i motivi che ci spingono ad unirci nel Partito democratico».
Cominci a spiegare ai lettori che non hanno partecipato al seminario perché in Italia è necessario un nuovo partito.
«Non serve un nuovo partito, ma un partito nuovo. La risposta alla sua domanda sta nell´analisi di quanto è accaduto nel mondo, in Europa e in Italia in questi ultimi decenni: sono cambiati tutti i riferimenti intorno ai quali nel corso del ‘900 le diverse culture riformiste avevano costruito le loro identità e la loro esperienza. Un pensiero nuovo è necessario per essere all´altezza delle nuove sfide che vengono dalla globalizzazione, dalle trasformazioni del mondo del lavoro, dalla ricerca di uno sviluppo sostenibile, dalla necessità di ripensare lo stato sociale, dall´urgenza di dare una risposta non plebiscitaria e non populista alla crisi della democrazia rappresentativa. Per dare risposte a queste domande non basta riproporre semplicemente le esperienze del passato».
Nel suo partito, come del resto nella Margherita, c´è chi obietta che questo percorso potrebbe essere compiuto separatamente. Si afferma che la tradizione e la cultura del socialismo e quella del cattolicesimo democratico sarebbero in grado di evolversi autonomamente, senza bisogno di fondersi.
«Ci sono due ragioni evidenti a tutti per le quali crediamo nella grande potenzialità di un disegno unitario. Nel secolo scorso le culture riformiste erano divise perché davano risposte diverse ai problemi di quel tempo. Le loro strategie, le loro proposte erano in competizione tra loro. Differenze enfatizzate per di più dal fatto che il mondo era diviso dallo scontro aspro tra il sistema occidentale e il sistema comunista. Oggi il quadro è profondamente cambiato: il pianeta non è più organizzato in grandi blocchi contrapposti ma soprattutto in questi quindici anni le culture riformiste italiane hanno già cominciato a contaminarsi reciprocamente e su tutti i principali temi che l´Italia ha di fronte a se, già oggi l´Ulivo e i suoi partiti sono in grado di esprimere un punto di vista comune».
Qualche esempio?
«Comune è l´idea che sia necessario dare un governo alla globalizzazione, sapendo che dare ordine al mondo non significa solo invocare la pace ma assumersi le responsabilità per ottenerla, come stiamo facendo in Libano. Comune è la consapevolezza che lo spazio e la dimensione della nostra vita siano l´Europa e che un paese come l´Italia non può pensare il proprio futuro fuori o senza l´Ue. Comune è la convinzione che impresa e mercato siano fattori essenziali per produrre quella ricchezza senza la quale non è possibile alcuna distribuzione di reddito, di opportunità, di servizi. Comune è la determinazione a riformare lo stato sociale nella direzione non di ridurre l´universalità dei diritti ma di estendere le opportunità a tutti per sconfiggere vecchie e nuove disuguaglianze. Comune è l´idea che abbiamo di una democrazia dei cittadini. Insomma: ci divide assai di più la storia da cui veniamo che non l´idea che abbiamo dell´Italia di oggi e del suo futuro».
Anche sui temi etici vi sentite pronti alla contaminazione? Dal referendum sulla fecondazione assistita alle battute iniziali di questa legislatura il confronto tra laici e cattolici all´interno dell´Ulivo ha registrato polemiche e divisioni…
«Sì, anche su questi temi delicati si può esprimere una cultura comune: penso alle coppie di fatto eterosessuali ed omosessuali, alla fecondazione assistita, al testamento biologico. Siamo in grado di trovare soluzioni condivise perché non si tratta di negoziare i principi. Compito della politica è costruire risposte e anche a partire da approcci etici e culturali diversi possiamo riuscirci».
Ad Orvieto si è riproposto il confronto tra chi invoca la partecipazione della società civile riassumibile nel cosiddetto popolo delle primarie e chi esprime diffidenza per questa categoria difendendo il ruolo dei partiti.
«È un falso dilemma e questa contrapposizione non c´è stata».
Ma la battuta di D´Alema sui gazebo è sembrata una risposta a chi come il professor Vassallo ha proposto la nascita di un partito aperto, leggero, più attento alla società civile che non alle istanze dei partiti.
«Nel discorso di D´Alema c´è una riflessione comune alla stragrande maggioranza di chi era presente al seminario e la sua battuta è stata forzata. Il tema non è D´Alema contro Vassallo. A Orvieto ci siamo sforzati tutti di ricercare una soluzione equilibrata al problema del rapporto tra questi due mondi. Senza i partiti, senza i Ds e la Margherita non saremmo arrivati fin qui; non ci sarebbero state le primarie nè le liste dell´Ulivo, né tantomeno sarebbe ipotizzabile la nascita del Partito democratico. Aggiungo che non solo serve l´intesa tra Ds e Margherita ma occorre coinvolgere socialisti, repubblicani e altre forze politiche riformiste. Ma è vero allo stesso tempo che i partiti sono una condizione necessaria ma non sufficiente. E per questo abbiamo bisogno che si incontrino con la società e che il processo di costruzione del Partito democratico coinvolga le donne e gli uomini che si identificano nell´Ulivo anche se non nei partiti che lo compongono. Guardo anche al mondo delle professioni, a quello della cultura e mi spingo oltre. Non si può pensare il riformismo italiano senza le organizzazioni sindacali, le grandi centrali cooperative, l´associazionismo sociale e culturale, le cui forme organizzative sono ancor oggi figlie dello scontro ideologico del dopoguerra. Penso che anche questi soggetti dovrebbero pensare a processi di riunificazione analoghi al nostro. In ogni caso, il punto fondamentale delle riflessioni svolte in questi giorni è che tutti ci siamo trovati d´accordo nel ritenere che dovremo costruire un partito solido, con centinaia di migliaia di aderenti, radicato nella società e organizzato in tutti gli ottomila comuni italiani. Capace allo stesso tempo di darsi nuove forme di partecipazione, di dotarsi di un linguaggio moderno e forme organizzative aperte. Non ci serve né un partito solo di eletti né la semplice somma delle strutture dei partiti esistenti».
Passaggio cruciale per capire il rapporto tra questi due mondi sarà l´assemblea costituente alla quale si dovrebbe arrivare nel 2008 dopo i congressi di Ds e Margherita. Secondo lei come dovrebbe essere composta la platea congressuale?
«Abbiamo tutto il tempo di discuterne approfonditamente. Io credo che una soluzione ragionevole potrebbe essere di avere il 50 per cento dei delegati espressione dei partiti e degli eletti nelle istituzioni e il 50 per cento scelti direttamente dai cittadini con un meccanismo simile alle primarie. Mi sembrerebbe il modo migliore per tenere insieme queste due realtà senza che chi sollecita il ruolo dei partiti appaia come il denigratore della società civile e chi chiede più spazio per quest´ultima passi come il boia dell´esperienza dei partiti».
Restano aperte due questioni tutt´altro che marginali: quella della collocazione internazionale del nuovo Partito e quella di chi non vuole entrare, come la sinistra della Quercia.
«Il confronto di Orvieto dimostra che possiamo finalmente lasciarci alle spalle il dibattito tra chi non vuol morire democristiano e chi non vuole morire comunista. Abbiamo discusso non di come vogliamo morire, ma di come si può far nascere una nuova vita. Partendo dalle nostre storie, così come due genitori che mettono al mondo un figlio che certo onorerà il padre e la madre, ma al tempo stesso cercando man mano che cresce la sua strada. Dobbiamo costruire una nuova storia che non neghi quelle precedenti, ma vada oltre. Così se vogliamo con il Partito democratico contribuire alla riunificazione dei riformismi anche in campo europeo non possiamo che lavorare e confrontarci con le grandi forze riformiste del continente, in primo luogo quelle socialiste e socialdemocratiche. Non si tratta di chiedere agli amici cattolici di aderire all´ideologia socialdemocratica, ma non si può ignorare il fatto che in Europa il campo riformista è oggi composto per la stragrande maggioranza da forze che si richiamano alla storia del socialismo. Con loro dobbiamo lavorare per una nuova stagione del riformismo europeo».
E alla minoranza interna che non è venuta ad Orvieto che messaggio manda? Alcuni vostri alleati temono che il rischio di una scissione possa farvi innestare la retromarcia.
«L´ottanta per cento dei nostri iscritti e dei nostri elettori ci chiede di andare avanti. Non possiamo certo deludere le loro aspettative, né frenare un progetto che serve al paese. Ma chi è stato a Orvieto ha potuto constatare che il treno del partito non ha le porte blindate e che tutti possono essere partecipi del viaggio con le proprie opinioni, anche le più critiche. E anche chi non è venuto, da oggi stesso può essere partecipe della costruzione del partito con le proprie convinzioni e con la stessa dignità e responsabilità di tutti noi. E io, che sono convinto della necessità storica del partito democratico, lavorerò perché i Ds, tutti i Ds, ne siano fondatori».