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28 Giugno 2005

Effetto Teheran

Autore: Federico Rampini
Fonte: la Repubblica

IL PETROLIO supera i 60 dollari a barile e i pessimisti ormai considerano ripetibile la “quota 80”, il prezzo che fu raggiunto nei drammatici choc energetici di trent´anni fa. Tre eventi fanno da sfondo al nuovo record: la vittoria di un falco in Iran peggiora la tensione nel Golfo; la Cina assetata di energia ha lanciato una storica Opa su una compagnia petrolifera americana; infine è in atto da mesi il recupero del dollaro sull´euro, che amplifica gli effetti del rincaro sull´economia italiana.

Il risultato delle elezioni iraniane nell´immediato non sposta gli equilibri tra offerta e domanda di greggio: per quanto il nuovo presidente sia un estremista antioccidentale, non ha interesse a ridurre quelle esportazioni che gli procurano la valuta pregiata per mantenere le sue promesse populiste.

Ma il voto iraniano aggrava l´instabilità geopolitica nella regione del mondo che resta per noi la principale fonte di petrolio. Nello scenario più catastrofico la prosecuzione del programma nucleare di Teheran – finalizzato a produrre “l´atomica degli ayatollah” – può sfociare in un attacco militare di Israele o degli Usa, in una seconda guerra dopo quella irachena, con serie conseguenze sui flussi di approvvigionamenti dal Golfo persico verso Europa e Stati Uniti.

Anche senza arrivare a tanto, la vittoria di Ahmadinejad cancella le speranze di un disgelo politico fra Teheran e Washington, che poteva sbloccare gli investimenti occidentali necessari per modernizzare gli impianti e aumentare la capacità di estrazione. In Iran infatti, così come nell´Iraq devastato dalla violenza, la produzione di petrolio resta molto inferiore alle potenzialità, per dei limiti strutturali legati a uno «sciopero degli investimenti» dai paesi ricchi. Questa è una delle ragioni per cui il cartello dei paesi produttori riuniti nell´Opec, anche quando promette di aumentare la produzione, ha scarso effetto sui prezzi.

C´è un´altra strozzatura industriale che limita l´offerta di benzina e gasolio e fa esplodere i prezzi: nonostante la lunga galoppata al rialzo, le compagnie petrolifere dei paesi ricchi hanno investito poco per potenziare le raffinerie.

Le multinazionali del settore si comportano come se non credessero che il boom mondiale dei consumi energetici durerà a lungo, e quindi non vogliono esporsi accumulando troppa capacità di raffinazione. Commettono un errore di previsione? Sottovalutano la tenuta dell´economia americana e il vigore della crescita cinese?

O invece “sanno” qualcosa che noi non sappiamo? Il comportamento delle multinazionali petrolifere è parallelo a quello dei mercati finanziari che continuano a mantenere tassi d´interesse a lungo termine molto bassi: sembra che molti scommettano su una crisi mondiale imminente. Possono sbagliarsi.

Ma a volte queste profezie hanno il potere di autoavverarsi. A furia di spingere al rialzo il costo dell´energia, c´è il rischio che la Cina non riesca più a sfornare ritmi di crescita del 9% annuo, e che gli Usa non “tengano” alla loro velocità di equilibrio del 3%.

Se il mondo rallenta l´Europa continentale, che è già a crescita zero, finirà ancora peggio. Gli ultimi due choc energetici avvennero nel 1974 e nel 1977, spedirono il petrolio oltre 80 dollari al barile (in valore attuale), e furono gli anni più duri dopo la seconda guerra mondiale.

Crearono il mostro della stagflazione: stagnazione economica, alta disoccupazione, aggravata da un´inflazione a due cifre che distruggeva il potere d´acquisto dei consumatori. La lira debole rendeva l´Italia uno dei paesi più prostrati. Oggi, se l´euro dovesse continuare a perdere quota sul dollaro, la bolletta energetica sarà ingigantita e forse sentiremo meno i nostalgici delle svalutazioni.

A dispetto delle previsioni più catastrofiste, la Cina continua per ora a essere la locomotiva dello sviluppo mondiale e il suo boom economico altamente energivoro è una delle cause di lungo termine del rincaro petrolifero (+67% in un anno).

La sete di energia spiega la mossa clamorosa del governo cinese che ha autorizzato l´azienda pubblica Cnooc a lanciare una scalata da 18,5 miliardi di dollari sulla compagnia petrolifera californiana Unocal, già appetita dalla Chevron. La Unocal controlla ricchi giacimenti anche nel Sudest asiatico.

Ma petrolio e gas sono materie prime liberamente scambiate sui mercati. Non occorre comprarsi una compagnia petrolifera per avere accesso all´energia che essa vende. Da questo punto di vista la Cina userebbe meglio quei 18,5 miliardi accelerando il suo programma di centrali nucleari.

Il controllo diretto delle riserve petrolifere diventa necessario solo in situazioni estreme, come una guerra. Perciò l´accanimento con cui i cinesi perseguono l´acquisto di Unocal, e lo speculare dibattito «strategico» che questa mossa scatena in America, suonano come un altro segnale poco rassicurante per il futuro.

Per capire le vicende del mercato petrolifero è bene non dimenticare un ultimo elemento del paesaggio attuale, a cui siamo talmente abituati da trascurarne il peso. Alla Casa Bianca c´è un presidente che viene dallo oil business texano.

Il vicepresidente per anni ha diretto l´azienda petrolifera Halliburton. Il segretario di Stato sedette nel consiglio d´amministrazione della Chevron, che ha battezzato “Condoleeza” una superpetroliera. Exxon, Chevron e tutte le “sorelle” petrolifere dominano la classifica delle capitalizzazioni di Borsa.

L´Amministrazione Bush nega che esista un problema di surriscaldamento climatico. Le politiche di riduzione dei consumi energetici, gli incentivi al risparmio e all´uso di tecnologie verdi, sono stati abbandonati o ridimensionati. Al governo della superpotenza mondiale c´è un gruppo dirigente che di fronte al barile di greggio a 60 dollari si dice: qual è il problema?