2222
21 Aprile 2006

Due anime e tre posti

Autore: Luigi La Spina
Fonte: La Stampa
E’ abbastanza ingenuo o abbastanza ipocrita scandalizzarsi per la
trattativa che, in questi giorni, Prodi ha avviato tra i partiti del
centrosinistra sulle presidenze delle Camere e sulla composizione del futuro
governo. Neanche Berlusconi ha potuto esimersi dalle fatiche mediatorie con gli
alleati.

Figuriamoci se può evitarle il professore bolognese che non solo non è
il leader del partito più forte, né di un partito, ma non possiede neppure le
risorse di pressione e di persuasione, anche «extrapolitiche», alle quali può
ricorrere, in alcuni casi, il Cavaliere.

Non è dunque la girandola di incontri
tra capi e capetti della coalizione vincente a sorprendere o a turbare più di
tanto gli elettori che l’hanno votata, ma la constatazione del riproporsi,
questo sì inquietante, di un vecchio gioco delle parti fra i personaggi in
commedia e, soprattutto, di un vecchio equivoco di fondo nel cosiddetto «polo
riformista» dell’Unione. Come se la lezione del voto, di appena dieci giorni fa,
fosse già dimenticata.

Così, immutabili, tornano gli stereotipi che hanno contrassegnato gli
ultimi dieci-quindici anni della nostra vita politica, con il consueto
campionario dei luoghi comuni nel centrosinistra: Prodi che sospetta di D’Alema
e teme le intemperanze di Bertinotti; il presidente Ds che continua ad
almanaccare trame di accordi sotterranei con Berlusconi (in gergo
romanesco-televisivo si chiamano inciuci); Marini e Mastella, ingordi cacciatori
di poltrone; Fassino e Rutelli, gestori affannati di due partiti più rivali che
alleati.

Una rappresentazione che, in parte, riflette anche le comode categorie
mentali di un certo mondo mediatico troppo abituato a guardare il presente con
gli occhi del passato, ma che, in parte più larga, è confermata dagli stessi
protagonisti, i quali, con una significativa coazione a ripetere, tendono a
ripresentarsi con lo stesso copione, le stesse cattive abitudini, gli stessi
insopportabili tic.

Se questa immagine collettiva suscita fastidio, irritazione o depressione,
a seconda dell’andamento dell’umore, l’aspetto che rischia di diffondere una
pericolosa disaffezione preventiva tra gli elettori del centrosinistra e il
costituendo governo Prodi è, fondamentalmente, un altro. Ben simboleggiato,
inoltre, dal duello D’Alema-Bertinotti, di queste ore, sulla presidenza della
Camera.
Al di là degli aspetti tattico-caratteriali, infatti, e persino al di là
dei nomi coinvolti nella trattativa, è arrivato al pettine il nodo di due
concezioni diverse del polo riformista nella coalizione unionista.

Da una parte,
i dirigenti Ds e Margherita che, pur proclamandosi dispostissimi a forzare le
tappe per arrivare al cosiddetto «partito democratico», si battono per
l’elezione alla Camera e al Senato di un loro rappresentante, rispettivamente
D’Alema e Marini.

Dall’altra, il presidente del Consiglio in pectore che,
appellandosi alla presentazione unitaria dei due partiti nella lista dell’Ulivo,
ritiene più giusto spartire le poltrone tra le due «anime», quella riformista e
quella radicale, che compongono la coalizione da lui capitanata. Riconoscendo in
Bertinotti il rappresentante più significativo di quest’ultima «area».

Subito dopo il voto che ne ha sancito la risicatissima vittoria, il
centrosinistra rischia di scontare il grave errore di aver posticipato la
costituzione del partito democratico a una prova di forza tra Ds e Margherita
che, avendo determinato una delusione elettorale parallela, spinge questi due
partiti più alla rivalsa egoistica che alla generosità.

Con una classe dirigente
che, non confortata dai numeri, teme ancor di più l’accusa di svendere i
rispettivi, se pur poco entusiasmanti, patrimoni di voti e di potere.

Eppure, la lezione di quella incredibile notte del 10 aprile, per loro, era
stata chiarissima, con la rottura di due regole che sembravano immutabili nella
storia della nostra Repubblica.

La prima riguarda addirittura i connotati di
identità sociale e politica del nostro Paese: il prevalere della costante
moderata nell’espressione di voto. Si può dire, infatti, che l’aprile 2006
supera l’indicazione permanente di un altro famoso aprile, quello del 1948.

Per
la prima volta, a una coalizione di sinistra viene affidata dagli italiani una,
sia pur lievissima, maggioranza di voti alla Camera. Epoche diverse, sistemi
partitici ed elettorali diversi, comparazioni sicuramente azzardate e, persino,
incongrue.

Ma una suggestione non trascurabile di una compiuta alternanza
raggiunta pure nella manifestazione elettorale dei cittadini italiani e non solo
nella loro mentalità politica.

Anche la seconda norma violata, in quella notte,
risale alle esperienze della prima Repubblica: quella che sottraeva
costantemente alla somma di due partiti che si univano una quota di quei
suffragi che riuscivano ad ottenere da soli. Perché l’Ulivo ha battuto,
nettamente, il totale dei voti Ds-Margherita.

E’ un bene, forse, che l’esiguità della maggioranza unionista nel Paese si
scontri immediatamente con la questione del «partito democratico». Solo uno
stato di necessità, in molte occasioni, consente di avere quel coraggio che
tutte le apparenze non dimostrano.

Ed è un bene, forse, che Prodi sia costretto,
subito, a sciogliere l’equivoco tra due concezioni del partito riformista che
ormai non possono più convivere.

Come tutti i capi delle aziende sanno
benissimo, gli azionisti affidano al loro amministratore delegato un potere
fortissimo quando lo nominano.

Ogni giorno, poi, intacca una piccola parte di
quel capitale di fiducia. E, un giorno, si accorgono di non averne più e trovano
cambiata la serratura del loro ufficio.