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19 Gennaio 2006

Dopo le elezioni possiamo farlo così

Autore: Francesco Rutelli
Fonte: Europa
Partito democratico, dunque. Si tratta dell’ennesimo non-luogo, oppure di
un logo come altri ce ne sono stati nel faticoso processo di trasformazione del
centrosinistra dal ‘92 ad oggi? Si tratta della quarta “matrioska” nella storia
del Partito comunista italiano, dopo Pci, Pds e Ds? Si tratta di una fuga in
avanti, se non proprio di una fuga oltreoceano? No.

Dobbiamo costruire una casa
o, meglio, una città, salda e stabile. La scelta del nome indica che dovrà
essere un partito. E una forza politica democratica e per la crescita della
democrazia in Italia. Dovrà essere riformista, nel senso di legare le sue
fortune a un chiaro, instancabile cammino di riforme. Dovrà essere nazionale.
Nascerà in quanto animatore e promotore delle nuove, necessarie, coinvolgenti
missioni per il nostro paese. Si affermerà dopo avere identifcato e
avviato a soluzione i principali nodi politici, culturali, organizzativi tuttora
irrisolti nel campo democratico e progressista.

Un partito. Ovvero, una forza
che si definisce come parte nella politica italiana. Dobbiamo
ricostruire pienamente l’orgoglio e la dignità del poter essere partito, su basi
coraggiosamente innovative, in piena coerenza con l’articolo 49 della
Costituzione, come antidoto al plebiscitarismo mediatico, come risposta di nuovo
alta alla crisi della politica e alle diffidenze verso la rappresentanza,
chiamata in realtà a compiti difficili, affascinanti, irrinunciabili, di
mediazione non meno che di progettualità.

Se ci fate caso, per la prima volta si
sceglie senza paura questa parola ­ partito ­ senza dover ricorrere a
suggestioni, né invocazioni generiche: non una lista elettorale, non una “cosa”,
non un richiamo generale come è stato da dieci anni a questa parte con l’Ulivo.

È evidente che il Partito democratico dovrà essere lo sviluppo e l’approdo delle
esperienze dell’Ulivo. Dico esperienze, al plurale, poiché ne abbiamo conosciuto
fasi e tappe molto diverse: un Ulivo elettorale e politico (quello del ‘95-‘96)
che non è stato purtroppo sviluppato, ma sostanzialmente accantonato dopo la
vittoria del ‘96 e negli anni di governo sino al 2001.

L’Ulivo elettorale del
2001 (di cui facevano parte non solo i Ds e la nascente Margherita, ma anche
Pdci e Girasole con i Verdi), cui dopo la sconfitta con Berlusconi è stata
sostituita progressivamente l’alleanza con Rifondazione e Idv, infine denominata
Unione. La lista di “Uniti nell’Ulivo” presentata da Ds, Margherita, Sdi e Re
nelle Europee del 2004. L’avvio, da parte delle stesse forze, della Federazione
dell’Ulivo. Infine, ed è storia di questi giorni, la lista dell’Ulivo alla
camera dei deputati guidata da Prodi e formata da Dl e Ds con partecipazione di
altre forze e personalità in vista delle elezioni del prossimo 9 aprile 2006.

Capisco che questa ricostruzione, pur largamente incompleta, abbia l’effetto di
far sbadigliare qualcuno in sala. Perché? Per un motivo fondamentale. Il
bipolarismo italiano nasce assieme all’ingresso in politica di Berlusconi. E la
grande maggioranza degli elettori di centrosinistra ha da tempo interiorizzato
l’idea che ­ più che formule, denominazioni e complicati equilibri politici ­
sia indispensabile creare la più larga unità capace di battere Berlusconi e
chiudere il troppo lungo capitolo di populismo, conflitti di interesse, scelte
politiche e di governo “à la Berlusconi”.

Il mio compito di oggi consiste nel
tentare di disegnare uno scenario prossimo in cui questa esperienza tanto
negativa per il nostro paese possa non proseguire imperterrita e soprattutto non
riprodursi di nuovo.

È necessario dunque, ben più che riaffermare un “credo
antiberlusconiano”, analizzare le strade migliori attraverso le quali
conquistare stabilmente il consenso della maggioranza degli italiani.

Una
maggioranza che il centrosinistra non ha mai raccolto in elezioni politiche;
neppure in quelle del 1996, che furono vinte solo grazie alla spaccatura tra
Lega e Polo (e nelle quali i rapporti di forza reali tra i due schieramenti
furono per noi addirittura peggiori di quelli conquistati nelle elezioni,
perdute, del 2001).

Per conquistare questa maggioranza al centrosinistra è
indispensabile un forte baricentro democratico-riformista, oggi imperniato su
Margherita e Quercia; nel prossimo futuro, è indispensabile il Partito
democratico. Dentro la più vasta cornice unitaria, certo. Ma con la
consapevolezza che gli italiani non darebbero la maggioranza dei consensi a una
coalizione eccessivamente condizionata dalle forze della sinistra radicale.

Dunque: Pd come conclusione dell’intuizione dell’Ulivo, nato come convergenza
delle migliori culture nazionali del Novecento (quella della sinistra
democratica, quella cattolico-popolare, quella liberaldemocratica, sino alle
esperienze recenti dell’ambientalismo); come superamento degli “antichi
steccati” tra cattolici e laici; come superamento della “conventio ad
excludendum” verso la sinistra post-comunista.

Io parlo qui come rappresentante
di un partito che ha già votato all’unanimità di voler dar vita al Pd. La
Margherita- Dl non è un piccolo partito; è anzi, nel novero dei maggiori partiti
europei, sia per consensi popolari che per organizzazione: circa 5 milioni e
400mila voti raccolti nelle politiche, circa 400mila aderenti, molte migliaia di
eletti ed amministratori dal Trentino alla Sicilia. Un partito che ha iscritta
nel proprio Dna la vocazione a concorrere ad aggregazioni più vaste. E che è
disposto al grande salto per la fondazione del Pd.

La sfida della democrazia
Veniamo ora all’aggettivo che forma il nome del nostro progetto: democratico.
Significa per noi dare vita a una formazione che interpreti la democrazia
interna nelle sue forme più aggiornate e adeguate (federali, ovvero con
fortissima valorizzazione delle autonomie dei livelli regionali e locali;
aperte, ovvero capaci di aggregare in modo vasto esperienze diverse e
convergenti del campo riformista; fortemente partecipate; radicate nel
territorio; non burocratiche; capaci di esprimere leadership forti e autorevoli
ma non modelli di personalizzazione estrema; dotate di una ricca articolazione
decisionale, alla Dahl, poliarchica).

Ma significa anche accettare la sfida
infinita della democrazia. La parola democrazia è forse la più antica e tutto
sommato la più viva del lessico politico, poiché il valore della democrazia è
sempre in trasformazione, non è mai acquisito, esige una costante ridefinizione,
almeno quanto comporta il significato di quella parola: potere del popolo,
sovranità popolare.

A differenza del XX secolo, il Ventunesimo inizia avendo
acquisito, come compito-base della democrazia, la definizione di limiti da porre
al potere pubblico, e non la sua espansione indefinita (è questa una delle più
importanti acquisizioni dal liberalismo). Nonché un’idea della redistribuzione
verso chi è socialmente svantaggiato che punta sensibilmente sulla dotazione di
opportunità e sulla crescita della mobilità sociale, delle libertà e delle
responsabilità. Che si misura con i vasti mutamenti propri della
globalizzazione, facendo di questa enorme prova il terreno su cui misurare
concretamente la capacità contemporanea della politica di orientare e decidere,
anziché soltanto di assistere a quei mutamenti.

Partito nazionale e patriottico
Un partito nazionale. E patriottico, rivendicando ex novo, sulla scia di quello
che considero il migliore lascito del settennato di Ciampi, la parola patria
come compiutamente democratica. Consapevole che il nostro progetto dovrà essere
fortemente legato agli interessi e alle potenzialità dell’Italia. Certamente,
incardinato in una strategia di recupero dell’integrazione dell’Europa (la
nostra “seconda patria”) oltre che di valorizzazione dell’efficacia delle
organizzazioni internazionali e del multilateralismo.

Un partito riformista. Non
tanto nel senso del riformismo come contrapposto al massimalismo di sinistra del
XIX e del XX secolo, quanto del dovere ineludibile e incessante di progettare e
realizzare riforme delle istituzioni e dell’organizzazione della Repubblica;
delle politiche economiche; delle regole di un mercato che faccia del
cittadino-consumatore il suo vero sovrano; del welfare; delle politiche
dell’educazione e della conoscenza.

Nessun paese, tra quelli medio-grandi, ha
tanto bisogno di riforme come l’Italia. Non nel senso di contrapposizioni
preventive ­ ideologiche o di schieramento ­ ma di adeguamento del volto e delle
dinamiche fondamentali della nazione rispetto ai formidabili talenti che la
storia ci consegna e che tuttora sono in grado di affiorare e reinventarsi nelle
condizioni contemporanee.

Nella conclusione di questo discorso cercherò di
cogliere alcuni fili, che possono aprire un confronto sulle missioni strategiche
del cambiamento dell’Italia di cui il Partito democratico si faccia
protagonista.

Credo che un piccolo numero tra i presenti oggi ricordi che ­
quando ho posto per la prima volta come possibile l’obiettivo della nascita del
Pd ­ ho associato ad esso tre necessari traguardi, almeno per noi della
Margherita Dl, ovvero per un partito che è nato dall’incontro di diverse culture
ed organizzazioni del centrosinistra (popolare, liberale,
democratico-riformista, ambientalista) e che non ha mai concepito la propria
esistenza come autosufficiente. Né volta a conquistare un’egemonia, né,
certamente, a subirne.

Sono tre grandi questioni che il trascorrere dei mesi ha
confermato come essenziali. E che oggi posso tornare ad affrontare in modo
costruttivo, meditato, neppure per un istante con la finalità di porre pretese o
condizioni escludenti. Semmai, di svolgere un dialogo che molti fatti degli
ultimi mesi confermano come indispensabile.

I collegamenti internazionali
Non ho
mai detto che Dl e Ds debbano abbandonare, rispettivamente, il Pde (giovane
aggregazione di dieci partiti europei, che ha raccolto in breve tempo l’adesione
già di trenta membri del parlamento europeo) e lo storico Partito socialista
europeo. Non si può chiedere alla Margherita di confluire nel Pse , né certo ai
Ds di abiurare dal significativo cammino europeo ed internazionale portato
avanti finora.

Il punto è un altro: anche sul piano internazionale è finita da
tempo l’autosufficienza della sinistra socialdemocratica, non solo in termini
culturali, di rappresentanza di ceti e classi sociali tutelati da consolidate
organizzazioni e norme, ma anche elettorali (quasi ovunque, i partiti socialisti
o affini fanno oggi parte di coalizioni).

Senza voler sminuire il valore né la
forza dei partiti del Pse, non si può neppure ignorare il sempre più evidente
campo di divergenze attraverso cui le rispettive politiche nazionali distanziano
Blair dai socialisti francesi, Zapatero dai socialisti dei paesi dell’Est e così
via. Il campo delle convergenze è assai diversificato, e si incontra spesso con
altre forze europeiste e di centro-centrosinistra estranee al Pse.

Dunque, il
più interessante proposito strategico mi pare quello di colmare la reale
lontananza tra il Partito democratico americano ­ così come altre grandi forze
democratiche mondiali, penso al Partito del congresso indiano ­ e le forze
riformiste europee. L’idea, cioè, di formare un’agenda essenziale delle
politiche e degli obiettivi democratico-progressisti per questo inizio di secolo
nell’arena globale.

Più che una piattaforma ideologica mondiale, del tutto
velleitaria, una rete di iniziative di governo e di opinione riguardanti, per
citare alcune questioni maggiori, il sistema delle Nazioni Unite, la promozione
della democrazia, l’ambiente, i diritti umani, la lotta al terrorismo
fondamentalista, gli Obiettivi del millennio contro la fame e la povertà, la
riforma del commercio…

Iniziando dal nostro continente, restituirgli un contenuto
­ come ha scritto Ortega y Gasset ­ coalizzando i partiti in grado di riportare
il treno dell’Ue sui binari dell’integrazione e farlo guidare da alcune grandi
priorità che rispondano, finalmente, alla seria insoddisfazione degli europei
verso l’Europa.

Il pluralismo culturale nel nuovo partito
La pluralità degli
orientamenti culturali è la base di un grande partito, e del potenziale primo
partito italiano. Chi punta a rappresentare un terzo e più del nostro popolo,
non può che riflettere al proprio interno la ricchezza delle opinioni e delle
propensioni che ciascuno di noi incontra nella propria vita: nel lavoro, nei
mondi associativi, nelle famiglie, dappertutto.

Questo non potrà che tradursi in
correnti di pensiero diverse, che si misureranno per esercitare la sintesi
necessaria, non più in base alle precedenti appartenenze e a loro ipotetiche
forme di disciplina (in questo senso l’esperienza della Margherita è abbastanza
significativa, avendo conosciuto un reale rimescolamento rispetto alle
formazioni politiche costitutive).

La sintesi dovrà essere adottata
democraticamente, e sono certo che la necessità di riferirsi a un più vasto
corpo elettorale permetterà gradualmente di far prevalere approcci innovativi,
più che istinti di conservazione delle vecchie certezze. Ovviamente, ciascuna e
ciascuno saranno liberi di pronunciarsi secondo coscienza individuale in materie
eticamente sensibili.

Per riferirci a vicende recenti come i referendum sulla
fecondazione assistita, ognuno in questa sala può criticarmi per le posizioni
che ho preso personalmente; ma tutti potete stare tranquilli che nel Partito
democratico dovrà sempre ricercarsi una soluzione di sintesi nell’azione
legislativa e di governo, ma non vi sarà mai un “pensiero unico”; né laicista,
né confessionale. Serve il Partito democratico per poter avere un grande luogo
in cui finalmente si possa essere interamente cattolici ed allo stesso tempo
limpidamente laici.

Credo che come grande partito nazionale il Pd tenderà a
porsi più spesso in sintonia con le fondamentali correnti di opinione e
culturali della nazione, piuttosto che con rispettabili ­ e non di rado preziose
­ testimonianze minoritarie.

Naturalmente, il confronto, o anche le sfide, non
potranno che aprirsi sul modo più corretto e più efficace per interpretare e per
guidare le esigenze e le attese generali del popolo italiano.

Autonomia tra
politica, affari, corpi intermedi

Né dirigismo, né commistioni. Niente
partito-guida. E niente “rapporti preferenziali” con una o più forze sociali.
Piena autonomia fra politica e organizzazioni sindacali, o di rappresentanza di
settore. Non parlo naturalmente di itinerari personali: in ogni partito è
fisiologico trovare esponenti provenienti da varie esperienze sociali o
professionali; sindacalisti, imprenditori, membri di associazioni le più
diverse.

Sappiamo, peraltro, che gli ultimi 12-14 anni hanno visto cambiamenti
assai rilevanti: pensiamo alla metamorfosi profonda della Coldiretti, solo per
cogliere un esempio. Credo di poter dire qui, in pubblico, che questa autonomia
noi cerchiamo di praticarla con tutte le organizzazioni esistenti, Cisl, Acli,
Confcooperative, oltre che naturalmente con le forze industriali, artigiane, del
commercio, del lavoro dipendente e così via.

Tutti i corpi intermedi della
società debbono vivere parimenti in autonomia: liberi di apprezzare o contestare
le scelte della politica, di stringere accordi o rompere trattative con il
governo in carica indipendentemente dal prevalente orientamento
politico-culturale che esista al loro interno.

Ha scritto su “Europa” Savino
Pezzotta che occorre al più presto porre fine al tentativo di «bipolarizzare
tutto, dall’economia al sociale», con un «primato del potere che tende a
limitare l’autonomia del politico e si fonda esclusivamente sul rapporto di
forza (…) per cui la coalizione vincente, forte in virtù della vittoria, produce
una gestione del potere che tende a determinare anche dentro la società civile e
nelle relazioni economiche il sorgere di amici “forti” impegnati a
consolidarla».

Ecco, cari amici, il richiamo a uno degli errori politici e
culturali più gravi fatto dai governi dell’Ulivo, la mancata approvazione di una
normativa sul conflitto di interessi tra politica e affari, nell’unico grande
paese democratico occidentale che ha visto sorgere e poi dominare, attraverso il
fenomeno berlusconiano, gravissime distorsioni, che coinvolgono sia le
istituzioni sia il mercato.

Ed ecco una delle priorità per la prossima
legislatura: norme moderne e rigorose sui diversi conflitti di interesse che
continuamente si manifestano: anche tra banche ed imprese; come tra banche,
imprese e comunicazione. Finché, almeno, non vogliamo sconfessare ciò che scrive
Dahrendorf: «La società civile è il pilastro più potente dell’ordine liberale,
in quanto è regolata e non controllata dallo stato».

Voglio cercare di
sviluppare questa riflessione attraverso la lente delle vicende recenti, e
particolarmente del tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl. Conoscete la mia
posizione, che fu altrettanto critica nella parallela vicenda della scalata Bpl
all’AntonVeneta. Ed in quella, anch’essa parallela e non ancora abbastanza
analizzata, della scalata alla Rizzoli-Corriere della Sera; tentata, non penso
proprio a titolo personale, dal dr. Ricucci: una persona definita dal presidente
della Lega delle cooperative Poletti come «un bravo imprenditore di successo»,
in un’intervista del 13 agosto scorso in cui egli affermava «il tentativo di
chiuderlo fuori della porta del cosiddetto salotto buono credo sia il sintomo di
un conservatorismo privo di prospettive».

Ora: io vorrei aggiungere qualcosa ai
giudizi che penso siano noti in questa sala e che ho espresso con un certo
anticipo rispetto all’esplodere degli scandali. E alla totale, leale, convinta
solidarietà che abbiamo espresso a Piero Fassino e ai Ds rispetto alla campagna
di aggressione orchestrata da Berlusconi ­ solidarietà non solo politica, ma
personale, che scaturisce dalla certezza di una pulizia che ci sentiamo di
difendere pubblicamente.

Voglio aggiungere l’apprezzamento per un passaggio
rimasto abbastanza inosservato della relazione di Fassino nella difficile
direzione Ds di una settimana fa: «Lo stesso superamento del “collateralismo” ­
che in realtà nelle forme storiche tradizionali da molti anni non c’è più ­
potrà essere più rapido e visibile attraverso un processo di riorganizzazione
del movimento cooperativo che superi le forme di organizzazione storicamente
figlie del sistema politico di un’altra epoca».

Un passaggio a mio avviso
doppiamente apprezzabile: perché non nega l’esistenza, tuttora, di forme di
collateralismo ­ anche se realmente diverse da quelle dell’epoca passata ­ e
perché indica l’esigenza di superarle da parte del movimento cooperativo. Io non
credo che la politica debba indicare la fusione tra cooperative “rosse” e
cooperative “bianche” come una strada da benedire. Decideranno loro, e noi
potremo giudicare.

Sarebbe a mio avviso sbagliato, come ha detto Luigi Marino,
presidente di Confcooperative, riproporre lo schema del passato, magari
aggiornato attraverso un parallelismo con la nascita del Partito democratico.
Del resto, molte cose non le si è viste, nelle vicende delle scalate, ma molte
non le si è volute vedere.

Posso capire che l’avvocato dell’ex-governatore Fazio
sostenga che egli sia stato raggirato da Fiorani: è forse la migliore linea di
difesa giudiziaria. Ma, in verità, ne emerge la più abbagliante conferma del
“concerto del quartierino”, per chi conosca le capacità e le potenzialità
ispettive della Banca d’Italia .

Nella vicenda Unipol ­ a parte le irregolarità
e gli abusi, di cui si debbono occupare magistratura ed autorità competenti ­
l’Italia si è salvata da un grosso rischio. Abbiamo registrato la pretesa di
alcuni di dare vita a un grande centro di potere (non operante, di per sé come
“cinghia di trasmissione”, ma di chiaro segno politico) che si pretendeva
chiamato “a rinnovare” il capitalismo italiano: si vedano a questo proposito i
discorsi tenuti da Consorte nelle assemblee delle strutture cooperative chiamate
ad autorizzare l’operazione, sino al suo discorso di commiato, accolto ­ anziché
dagli scroscianti applausi di riunioni precedenti ­ da un eloquente silenzio.

Non abbiamo registrato, ora che sembrerebbe finalmente archiviata la lunghissima
vicenda che ha visto divisa la finanza in “laica” e “cattolica”, la nascita di
una finanza “rossa”. La mia conclusione è semplice: non esistono più le classi,
i riferimenti economico-sociali organizzati, le barriere anche ideologiche del
passato.

Va superata ogni forma di preferenza ­ e, tanto più, di esclusivismo ­
nei rapporti tra politica e corpi intermedi. Va concluso ogni persistente
collateralismo, ove vi siano passaggi organici di gruppi dirigenti e
condivisione di operazioni e interessi economici e finanziari.

Uscendo
dall’etica assoluta «che non si preoccupa delle conseguenze» (Weber), dall’etica
della convinzione, per fare dell’etica della responsabilità una delle bandiere
del Partito democratico futuro.

Come ha detto Massimo Cacciari concludendo il I
anno di attività del Centro di formazione politica, non dobbiamo buttare via con
l’ideologia e le sue pretese anche una politica animata da valori: «Il discorso
sui valori attiene infatti a una dimensione di responsabilità individuale: il
valore è la posizione da cui io parto per iniziare un dialogo, un confronto, una
discussione con l’altro da me.

L’ideologia, per la sua pretesa totalizzante,
esclude i valori, che diventano superflui ». Non scetticismo, non relativismo,
ma relatività. Qui c’è lo spazio, secondo Cacciari, per le idee, i progetti
riformisti e anche lo spazio per quel di più, non di rado decisivo, che è la
passione politica.

E qui posso concludere. Come potremo arrivare effettivamente
alla nascita del Partito democratico, all’indomani delle prossime elezioni? Se
il centrosinistra, innanzitutto, avrà vinto, con la guida di Romano Prodi. Se la
lista dell’Ulivo alla camera avrà avuto successo e pure avranno avuto successo
le liste della Margherita e dei Ds al senato (dove i seggi così conquistati
saranno assolutamente necessari per una maggioranza resa più stretta dalla
nuova, sciagurata legge elettorale).

Guardando all’indomani delle elezioni,
oltre agli aspetti organizzativi, pur importanti ­ ma su cui impegniamo di
solito una quota eccessiva delle nostre attenzioni ­ dobbiamo dedicarci a quello
che io insisto nel chiamare “un nuovo inizio”. Alla forza creatrice di un “nuovo
inizio”, sono certo, la Margherita-Dl concorrerà coralmente. Non ci interessano
invece confluenze, né mere combinazioni interpartitiche.

Questo non significa
svuotare i bagagli delle eredità culturali e politiche del XX secolo, ma
portarli su un mezzo di trasporto nuovo. Significa ideare un’identità condivisa
sulle esigenze del futuro, più che sulle differenze nelle identità del passato.

Ha scritto Amin Maalouf che «l’identità non è data una volta per tutte; si
costruisce e si trasforma durante tutta l’esistenza». Un partito, infatti, se è
vivo, è il più vivente degli organismi viventi. E dunque il processo per la
nascita del Pd sarà un processo democratico, profondo, conflittuale se
necessario, appassionante, capace di interpellare milioni di italiani in questo
“nuovo inizio”.

Non è una formula, una manovra tattica, il frutto di un appello
generico. Nascerà, in definitiva, con uno spirito non dissimile da quello con
cui in queste ore assistiamo alla nascita di Kadima in Israele, frutto della
consapevolezza dei limiti dei partiti esistenti, ma più ancora della convergenza
su un potente traguardo nazionale (la pace col nemico, una forte, ritrovata
unità del paese).

Con la stessa trepidazione che deriva dal non esser chiaro se
l’operazione sia destinata davvero al successo. Con lo stesso legame ­ speriamo
per nulla drammatico, a differenza della dolorosa malattia di Sharon, che
tuttavia non sembra in grado di far scomparire il suo ambizioso progetto ­
riferito alle biografie, le contraddizioni e magari le svolte sorprendenti
provocate dalle persone quando decidano di animare un progetto coraggioso. Solo
un grande coraggio farà un grande partito, denso delle sue eredità ideali, nuovo
nel suo progetto.

E qual è il progetto da sottoporre agli italiani? Dobbiamo
discuterlo e deciderlo, in molti, anzi, moltissimi. Ma vorrei indicare due sole
parole, per cominciare.