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30 Gennaio 2006

Dopo la vittoria di Hamas

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

DOPO LA VITTORIA DI HAMAS
La democrazia senza Stato
Cos’è questa democrazia, che porta al potere i terroristi nel modo più trasparente, senza colpi di Stato, senza che vengano infrante le regole che apparentemente la fondano? La tranquilla vittoria elettorale di Hamas, mercoledì nei territori palestinesi, è uno di quegli eventi che di primo acchito fanno pensare alla vittoria democratica di Hitler o all’Algeria del 1992, quando il governo dei generali annullò il secondo turno di un’elezione in corso per timore che gli integralisti del Fronte islamico di salvezza prendessero il potere e annientassero – come avevano promesso – ogni pluralismo. Oggi come allora, la democrazia appare come qualcosa di insidioso, di insopportabilmente imprevedibile: una grande invenzione dell’umanità, ma che i suoi spiriti maligni possono da un momento all’altro usare ai propri fini, dirottare, distruggere. A ben vedere la democrazia è sempre stata questa crisi e quest’insidia, sin da Platone e Aristotele, e gli ultimi due secoli hanno confermato quel che già Atene sapeva: che la democrazia può finire in pura apparenza, quando la sua forza consiste nel mero trionfo delle maggioranze e dei demagoghi.

È il motivo per cui vale la pena ricominciare a pensare questo sistema di convivenza civile, perché solo in questo modo lo Stato d’Israele e gli Stati Uniti e gli europei sapranno come affrontare quello che al momento attuale è vissuto come un incubo, una disastrosa regressione, un infarto del tutto inatteso della politica e delle sue arti. E siccome ricominciare a pensare significa provare a parlare in modo diverso, anche le parole che usiamo dovranno essere riviste, riscritte con spirito nuovo, in modo da stabilire un legame meno fatuo con la realtà concreta che esse vogliono esprimere. È dalla realtà della Palestina e dai concetti che usiamo per descriverla che
bisogna dunque partire, se si vuole fare politica e non adagiarsi nell'inerte disperazione del fatalismo. Le parole da rivedere sono essenzialmente tre: democrazia, pace, disarmo. Vediamo innanzitutto la parola democrazia. La democrazia può legalmente portare al potere i terroristi, e Hamas è certamente una organizzazione che pratica il terrorismo (negli ultimi quattro anni ha ucciso in attentati suicidi 269 civili e 50 soldati israeliani, e ferito 1571 esseri umani). Ma un abuso simile della democrazia diventa quasi ineluttabile in territori come quello palestinese, dove non c’era democrazia ma anarchia, guerra tra fazioni, oltre a corruzione estrema. L'amministrazione controllata da al Fatah non era in alcun modo paragonabile allo Stato di Weimar, che avrebbe potuto forse frenare Hitler. Né era paragonabile allo Stato algerino guidato negli Anni 90 dal generale Zeroual: il processo elettorale non poteva essere bloccato, in assenza di uno Stato capace di fronteggiarne le conseguenze. Questo significa che la democrazia non è solo vittoria dei gruppi o partiti più forti in una competizione legale e trasparente. Essa presuppone due altri elementi cruciali, che nei territori occupati della Palestina non sono presenti: uno Stato che sia riconosciuto come tale e che inoltre sia forte, e un pieno controllo del territorio. Presuppone un monopolio chiaro, visibile, della violenza legittima. Per il presidente Abu Mazen, questa era la democrazia capace di produrre ordine e non caos: «Un'autorità, una legge, un'arma legittima e il pluralismo politico» (intervista televisiva del 25 aprile 2005). È una condizione che l'autorità palestinese non ha saputo creare, ma è vero anche che nessuno ha aiutato Abu Mazen a darsela: né il governo d'Israele né quello statunitense. Per ambedue la democrazia è qualcosa di astratto, sconnesso dalla realtà e dalle sue esigenze. L'intera lotta al terrorismo mondiale soffre di questa vaghezza retorica, a
proposito dell'espansione della democrazia. Una vaghezza che negli ultimi anni è stata dilatata dai governanti d'Israele e degli Stati Uniti, e che ha ridotto l'idea democratica a ben poca cosa. È quello che si vede in molti Paesi, dove le elezioni stanno portando al potere l'islamismo radicale, e la Palestina è - tra questi Paesi - il caso più emblematico. Con un grande e bel gesto le si è voluto dare la democrazia, ma non si è pensato agli altri ingredienti del regime democratico che sono lo Stato, il controllo del territorio, ma anche la lotta alla corruzione e quel minimo di prosperità economica che consente al pluralismo di essere convivenza civile anziché lotta di tutti contro tutti. È quello che ha spinto tanti palestinesi che pure vogliono la pace con Israele a votare Hamas, perché Hamas unisce la lotta armata a un'attività assistenziale capillare e vastissima, che assicura il funzionamento di scuole, ospedali, buongoverno comunale e regionale, in territori che altrimenti non conoscerebbero altro che la legge del più forte e più ricco. Hamas è il frutto di politiche insipienti ma costituisce al tempo stesso un'opportunità: l'opportunità di pensare con più profondità la democrazia, di non assimilarla semplicemente alla vittoria delle maggioranze e alla rottura dello status quo - come usa fare Bush quando esalta ogni sorta di strappo democratico - e di darle un più esteso fondamento. Quel che Arafat e Abu Mazen non hanno voluto o potuto fare, Hamas forse riuscirà ad attuarlo: il monopolio della violenza, il controllo del territorio, il governo gestito correttamente invece del caos e dell'anomia, ovvero dell'assenza d'ogni legge. È quello che ha detto lo scrittore israeliano Gadi Taub a Elisabetta Rosaspina, sul Corriere della Sera del 24 gennaio: «Un governo forte guidato
da Hamas è meglio che l'anarchia. Hamas come controparte è preferibile a nessuna controparte». Pur essendo antisemita, pur augurandosi la fine d'Israele, Hamas ha già iniziato a far politica e de facto finirà col riconoscere Israele, dice ancora lo scrittore. E far politica significa per Hamas eliminare le milizie autonome (i frammenti incontrollati della propria milizia ma anche i combattenti del Gihàd e le brigate Al Aqsa, braccio armato di Fatah) e riportarle tutte sotto un'unica armata, che per forza non può disarmarsi. La seconda parola da rimeditare è la parola pace, che tendiamo ad associare troppo spontaneamente al regime democratico. Il ritiro unilaterale da Gaza è stato un atto rivoluzionario di Sharon ma non è pace, perché pace è riconoscere una controparte e non negarne o aggirarne l'esistenza. Neppure una tregua è pace, anche se è un passo avanti enorme rispetto alla guerra contro i civili, al crimine degli attentati suicidi, alle rappresaglie israeliane. Pace è quando due Stati si riconoscono come tali, e si promettono l'un l'altro cooperazione invece di ostilità. La pace fra tedeschi e francesi dopo secoli di guerre ha comportato addirittura una rinuncia a parte delle rispettive sovranità nazionali, quando nel dopoguerra nacquero prima la Comunità per il carbone e l'acciaio, poi la Comunità europea. Questo tipo di pace potrebbe divenire un modello per il Medio Oriente, ed è la finalità che dovrebbero proporsi le due parti. Ma per giungervi occorre che ambedue possano vedere se stesse come controparti legittime, e che in questa veste stringano una prima tregua: occorre che i palestinesi riconoscano il diritto all'esistenza di uno Stato ebraico in Israele (uno Stato non squilibrato dal ritorno a casa di tutti i palestinesi espulsi dopo il '48) e che Israele riconosca il diritto all'esistenza di uno Stato palestinese capace di esercitare sul proprio territorio un controllo vero, non ostacolato da centinaia di colonie-roccaforti israeliane che sfuggono al controllo dell'autorità che verrà esercitata dal nuovo Stato.
Occorre insomma che i due Stati esistano, perché ci sia una prospettiva di pace al posto del cessate il fuoco. La tregua di fatto c’è – è stata sottoscritta da Hamas il 17 marzo 2005 al Cairo. Non esiste invece per il Gihàd, il gruppo armato che ha boicottato le elezioni del 25 gennaio.

Nel linguaggio stesso di Hamas non è vera tregua di pace, quella firmata un anno fa. C’è un cessate il fuoco provvisorio, un periodo di raffreddamento, che si chiama tahdiya, e c’è la «tregua di lunga durata», che si chiama hudna e che dovrebbe sfociare nella pace con lo Stato d’Israele il giorno in cui quest’ultimo si ritirerà dai territori occupati nel ’67. Anche questa hudna non è pace vera e propria, perché una tregua può sempre essere interrotta e perché la carta costitutiva di Hamas prevede tuttora la fine di Israele e la riconquista dell’intera Palestina. Ma son numerose le dichiarazioni che dicono il contrario, e che nella hudna vedono una soluzione definitiva. Lo sceicco Ahmed Yassin, ucciso dagli israeliani nel 2004, era per uno «Stato palestinese indipendente sui territori occupati dopo il 1967» (è la cosiddetta «soluzione a interim», spesso citata da Hamas).

Il disarmo è l’ultima parola da rivedere. Non lo si può ottenere subito, e probabilmente andrebbe disgiunto da altre condizioni. Quel che si può ottenere oggi, sempre che Hamas riconquisti il monopolio della violenza, è un riconoscimento del diritto di Israele ad avere uno Stato ebraico. Per qualsiasi movimento di liberazione è impossibile rinunciare alle armi, fino a quando i negoziati non producono il riconoscimento reciproco delle controparti. Si può deplorarlo naturalmente, ed è deplorabile. Hamas che monopolizza la violenza in Palestina può essere una terribile trappola. Ma non si può volere una democrazia complessa e non riduttiva, e negare le armi a Hamas che la governerà. Le armi sono un mezzo di Hamas, e non è sui suoi
mezzi che bisogna per il momento influire ma sui suoi fini (la distruzione di Israele). Anche Mandela e l'Anc (Congresso nazionale africano) rinunciarono alla resistenza armata solo dopo la liberazione dei prigionieri politici, la legalizzazione del proprio movimento e l'avvio di autentici negoziati con il governo di Pretoria. Per molto tempo, la lotta armata fu usata per meglio negoziare: era una «politica assicurativa», diceva l'Anc. Se c'è chiarezza su questi tre punti, Israele Stati Uniti ed Europa potranno fare molto. Se favoriranno l'educazione-trasformazione di Hamas, avranno vinto una battaglia che potrebbe rivelarsi decisiva, contro il terrorismo nel mondo. La cosa che devono evitare sono le parole vacue, fatte per consolare i militanti di una sola parte e del tutto superflue in negoziati dove all'inizio non ci si può incontrare che tra nemici. Non si può perorare l'ammissione di tutti i partiti nelle elezioni, e poi rifiutare ogni contatto con Hamas. Non sarebbe solo il colmo dell'ipocrisia. Sarebbe il suicidio della politica, della lotta al terrorismo, e in fin dei conti dell'idea stessa di democrazia.