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14 Aprile 2005

Discontinuità, ultima spiaggia

Autore: Paolo Franchi
Fonte: Corriere della Sera

Chissà se e come riuscirà a declinarla il vertice della maggioranza di oggi, questa brutta parola politichese, «discontinuità». Sul fatto che una qualche «discontinuità» nell’azione del governo sia necessaria, nei programmi e magari anche in alcuni ministri, si dichiarano infatti un po’ tutti d’accordo, con la parziale eccezione della Lega, che sembra intenta soprattutto a difendere le proprie «conquiste», la devolution per prima. Ma mettersi d’accordo su che cosa esattamente debba significare, e come possa prendere una forma visibile e concreta, questa benedetta «discontinuità», è un altro discorso.

Discorso lontano dall’essere risolto. Così lontano da dare corpo al sospetto che sia, in realtà, irrisolvibile.
Un governo che governi, si reclama; e una maggioranza (tutta insieme, e ciascun partito per sé) che recuperi, in vista delle elezioni dell’anno prossimo, i voti di chi, deluso, nelle regionali ha preferito astenersi, e anche quelli che, in misura considerevole, hanno cambiato campo, spostandosi verso il centrosinistra.

Vasto programma, non c’è che dire: nessuno potrebbe ragionevolmente non riconoscersi in così nobili intenti. Ma resta tutto da dimostrare (e allo stato appare anzi francamente indimostrabile) che un simile programma sia realizzabile nel breve volgere di un anno, anche se, contro ogni realistica previsione, gli alleati della Casa delle Libertà convenissero su ogni passaggio e ogni obiettivo, e non si predisponessero invece, come è assai più probabile, anzi, certo, a una stagione di litigi, ripicche, veti incrociati, nella disperata ricerca di marcare il proprio territorio per rendersi visibili agli occhi degli elettori di riferimento.

Sembra saperlo bene Silvio Berlusconi, anche se a ogni pie’ sospinto lo nega. Tanto è vero che a radicali revisioni autocritiche dei quattro anni trascorsi (giudicati impietosamente dagli elettori) non pensa affatto, e che la parola «crisi» non la vuole neanche sentir pronunciare: l’importante è durare per tutto il mandato, concedendo qualcosa ai partner riottosi, e soprattutto iniziare subito una lunghissima campagna elettorale.

Sembra saperlo bene, ai suoi antipodi, Marco Follini, che la crisi, pilotata o no, la vuole davvero: già la scorsa estate contò di smarcarsi, salvo poi ritrovarsi sospinto suo malgrado alla vicepresidenza del Consiglio, e adesso coltiva qualcosa di più della speranza (solo all’apparenza curiosa, per un postdemocristiano) di riuscire a lasciare il governo, meglio se con tutti i suoi ministri, ma eventualmente anche da solo, se i più filoberlusconiani del suo partito gli impedissero scelte troppo radicali.

Ma in realtà lo sa bene anche Gianfranco Fini, reduce da un insuccesso elettorale più modesto, certo, di quello pesantissimo subìto dal partito-non partito di Berlusconi, e però doloroso, anche perché non è il primo e rischia di non essere l’ultimo: difficile pensare di venirne a capo con un po’ di «discontinuità» e un ministero per un ex colonnello.

Tutto questo non basta affatto ad escludere che una qualche intesa per sopravvivere venga alla fine raggiunta. Ma, anche in questo caso, basta, eccome, a gettare un’ombra assai preoccupante sull’anno che attende il Paese, e pure il centrodestra.

E induce a chiedersi, ancora una volta, se un sim ile percorso, ancora così denso di incognite, debba proprio ritenersi obbligato. O se invece non sarebbe stato e non sarebbe ancora più proficuo (per il Paese, per il centrodestra, per lo stesso Berlusconi) evitarlo. Scegliendo la via delle elezioni anticipate.

Per provare a vincerle, naturalmente. O, nel caso (più probabile) di sconfitta, per limitarne le dimensioni, che nel 2006 potrebbero essere catastrofiche, e per andare all’opposizione (in regime di alternanza, succede) con l’intento, però, di rinnovarsi e di cambiare in tempo utile per tornare il prima possibile al governo.

Non per traversare ancora una volta il deserto. Nella scorsa legislatura l’impresa riuscì: e anche gli alleati più critici ne riconoscono il merito a Berlusconi. Ma stavolta potrebbero non esserci oasi. E forse nemmeno la terra promessa.