5 Giugno 2006
Dialogo e sospetti, la doppia partita
Autore: Massimo Franco
Fonte: Corriere della Sera
Probabilmente, neppure Giulio Tremonti si illudeva di aprire una breccia subito; né nella maggioranza, né nel centrodestra. Le risposte agrodolci che ha ricevuto la sua proposta di Costituente confermano l’inevitabilità di una verifica differita. Prima del referendum sul federalismo del 25 e 26 giugno, la sola ipotesi di trattare insieme appare velleitaria. Ma l’ex ministro dell’Economia sa anche che all’interno dell’ Unione esiste un «partito delle riforme costituzionali».
In fondo, lo stesso presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha avvertito che in futuro andranno decise il più possibile insieme con l’opposizione. E Piero Fassino, segretario dei Ds, un cenno di «ricevuto» l’ha fatto. Il problema è capire quanto una posizione di principio possa diventare regola di comportamento.
L’autosufficienza si è rivelata qualcosa di più di una semplice tentazione, nell’ Unione. Dopo le elezioni di aprile, forse proprio per la vittoria di stretta misura, la coalizione prodiana ha voluto dare un segnale di forza, per non dire di prepotenza istituzionale: una sorta di ritorsione nei confronti di un centrodestra che per cinque anni è andato avanti a colpi di maggioranza. Sarebbe ingenuo, adesso, aspettarsi un ripensamento proprio sul referendum.
La riforma che il centrosinistra vuole cancellare ha lacerato il Parlamento appena pochi mesi fa. Voluta dalla Lega e imposta agli alleati, cambia 52 articoli, ne inserisce 3 ed è considerata uno stravolgimento della Costituzione.
Ma ritenere che questo chiuda il capitolo del dialogo è riduttivo. Senz’altro lo rinvia, e l’incognita riguarda i tempi con i quali potrà prendere corpo.
In apparenza, i segnali postelettorali tendono a far pensare che gli schieramenti siano ibernati nella contrapposizione.
E se nel fronte berlusconiano si consoliderà la percezione di una legislatura breve per la fragilità dell’Unione, è difficile scommettere sull’evoluzione evocata da Tremonti.
Rimarrà la rocciosa determinazione a non trattare con Prodi ed i suoi alleati, simmetrica a quella che fa dire alla maggioranza di evitare qualsiasi contaminazione con il Cavaliere.
Dietro qualunque soffio di «spirito costituzionale» si intravedono infatti i germi di un’unità nazionale di fatto, percepita nella Seconda Repubblica sempre come «inciucio»; trattativa inconfessabile; e, in fin dei conti, tradimento dell’elettorato.
È un retaggio di pregiudizi in parte fondato; e in parte usato come alibi per non rimettere in discussione equilibri interni già di per sé fragili. Si tratta di un aspetto lasciato sullo sfondo, eppure di peso.
La difficoltà della «fase costituente» è acuita dalla persistenza dei veleni elettorali. Ma non va sottovalutata, come fattore di resistenza sommersa, l’incertezza sul futuro dell’Unione e della Casa delle libertà.
Riplasmare un sistema costituzionale, senza prima definire l’identità e il profilo di chi dovrebbe essere chiamato a farlo, diventa un’operazione acrobatica.
Certo, si può ritenere che, cominciando a dialogare, gli schieramenti comincino già per questo a modificarsi; e la disponibilità di Umberto Bossi a trattare anche in caso di sconfitta indica che per la Lega la questione vale più delle logiche di schieramento.
Ma il passato delle commissioni parlamentari per le riforme costituzionali suggerisce il contrario. Ed ha seminato diffidenze destinate a durare a lungo.
Il «manifesto di Tremonti» sembra dunque legato a filo doppio alle prospettive del Partito democratico che l’Unione dice di voler creare; e dal modo in cui Berlusconi riuscirà a guidare la sua coalizione oltre il trauma della sconfitta.
Sono due itinerari dall’esito non scontato. La competizione fra Ds e Margherita promette di degenerare in scontro su temi come la bioetica. E già si percepisce l’ostilità nell’Unione alla sola prospettiva di un disgelo costituzionale con Berlusconi.
Quanto alle aperture di Fassino a Tremonti, vengono osservate con interesse, e insieme con scetticismo.
Qualcuno teme che il segretario dei Ds possa dar luogo a malintesi, come avvenne con la Bicamerale di Massimo D’Alema nel 1997; ed essere visto, a torto o a ragione, come un leader di partito alla ricerca di visibilità istituzionale.
Lo scenario anche solo teorico di maggioranze parallele per ora ha più avversari che alleati: nell’Unione e nel centrodestra.