Partiamo pure dalla premessa che un provvedimento di indulto non sia più procrastinabile. Troppi sono stati i preannunci, sebbene non sempre in linea con il programma della maggioranza di governo; troppe le fughe in avanti. Troppe le attese suscitate nell’universo carcerario, perché la prospettiva dell’indulto possa ancora una volta vanificarsi. D’altro canto, l’enorme sovraffollamento delle carceri (oltre 61 mila detenuti, cioè più di 15 mila eccedenti la capienza ordinaria) costituisce una circostanza di risalto oggettivo, l’unica di per sé idonea a giustificare l’indulto come una sorta di «male minore» necessario.
Detto questo, tuttavia, c’è modo e modo di impostare un provvedimento di indulto. E quello risultante dal progetto approvato dalla commissione Giustizia della Camera – su cui si comincerà a discutere domani nell’aula di Montecitorio – appare ispirato a certi criteri di larghezza non sempre apprezzabili. Soprattutto se lo si confronti con il corrispondente testo unificato predisposto nello scorso gennaio, e rimasto senza esito, pur avendo raccolto il consenso di una larga area trasversale.
Come sempre il problema più importante riguarda l’individuazione dei reati esclusi dal beneficio, tanto più in relazione a un indulto esteso alle pene detentive fino a tre anni (due anni era, invece, il tetto massimo previsto dall’ultimo indulto, quello del dicembre 1990). Nel progetto varato dalla Commissione Giustizia si escludono, infatti, i delitti più gravi, a partire ovviamente da quelli di criminalità organizzata e terroristica; ma tra questi non sono compresi delitti di forte allarme sociale, come le rapine e le estorsioni aggravate, o come l’usura. Il che fa molto pensare, tenuto conto degli effetti che potrebbe produrre l’improvvisa scarcerazione di qualche centinaio di condannati per tali reati, molti dei quali purtroppo torneranno presto a delinquere, come l’esperienza insegna.
Tra i reati non compresi nella lista delle esclusioni dall’indulto vi sono, inoltre, tutti i delitti contro la Pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione, ecc.) nonché i delitti di natura economica, finanziaria e societaria, diversi dei quali emersi (anche) nelle recenti vicende di disastri economici e di fallimenti di grandi imprese, che tanti danni hanno recato al mercato e ai risparmiatori. Che questi delitti non siano stati esclusi dall’indulto non è un buon segno, per chi ancora creda nei valori della «questione morale»: tanto più essendo piuttosto pochi i condannati detenuti per simili reati, al punto da non incidere sulla finalità deflattiva dell’indulto.
Siamo di fronte a problemi aperti, sui quali sarà bene che il Parlamento rifletta (ma anche il Governo, trattandosi di problemi legati alla politica della giustizia, oltre che dell’ordine pubblico), non foss’altro per evitare di lanciare ai cittadini un messaggio negativo, di tipo lassista, su temi tanto delicati. Non è senza significato ad esempio che, nel testo predisposto a gennaio, per molti dei reati appena ricordati l’indulto fosse circoscritto alla misura massima di un solo anno di pena detentiva. E allora c’è da domandarsi cosa sia cambiato, sul punto, da gennaio a oggi, oltretutto dopo l’avvento del centrosinistra.
Un ultimo rilievo concerne la prevista operatività dell’indulto anche nei riguardi delle pene accessorie temporanee, conseguenti alle condanne per reati, cui sia stato applicato il beneficio. Se la finalità dell’indulto è quella di deflazionare le cifre esorbitanti della popolazione detenuta, infatti, davvero non si capisce perché esso debba estendersi anche alle pene accessorie. E a maggior ragione quando si pensi che queste ultime (come l’interdizione dai pubblici uffici o dall’esercizio di una professione, ecc.), sono in molti casi le più utili ed efficaci, in vista della prevenzione di nuovi reati.