ROMA
— Hanno sparato mentre i militari erano impegnati a distribuire viveri e
medicinali alla popolazione. Anche questa volta hanno seguito la strategia che
mira a rompere il rapporto tra gli occidentali e gli afghani. Perché
l’obiettivo dei terroristi è quello di fermare il processo di civilizzazione e
così indebolire il regime di Hamid Karzai. Era accaduto già a novembre, quando
a morire per l’esplosione provocata da un kamikaze, durante l’inaugurazione di
un ponte progettato da alcuni ingegneri italiani, era stato il maresciallo capo
Daniele Paladini. Pure allora il momento per attaccare fu ritenuto propizio,
visto che c’erano donne e bambini in festa. Il messaggio che si vuole lanciare
ai locali, dicono gli analisti, è preciso: non bisogna collaborare con chi ha
occupato il Paese.
Poche
ore dopo aver ricevuto la drammatica notizia, il ministro della Difesa Arturo
Parisi ha incontrato in Senato la delegazione di parlamentari del comitato
Nato. E a loro ha espresso una posizione condivisa dagli altri governi che
partecipano alla missione con un proprio contingente: «Bisogna restare, perché
senza la presenza militare l’Afghanistan rischia di precipitare nuovamente nel
caos. Se qualcuno avesse avuto dubbi, basta che consideri la dinamica di
quest’ultimo fatto per capire che non possiamo arrenderci. I nostri militari
erano lì per aiutare gli afghani nel loro cammino, sostenendoli nel campo
alimentare, dell’assistenza sanitaria. Erano lì per difendere i deboli
fronteggiando con le armi l’aggressione di chi vuole impedire la convivenza
civile. Il maresciallo Giovanni Pezzulo conosceva benissimo la missione, ci
credeva ed è morto mentre la svolgeva. È morto mentre la svolgeva così come
muore chi ha dedicato a questo fine la sua vita, in Italia come in
Afghanistan». Parisi pensa ai poliziotti e ai carabinieri uccisi in servizio,
pensa «a tutti i servitori dello Stato». E per questo ribadisce: «Abbandonare
quella missione sarebbe come dire che i nostri soldati sono morti invano».