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22 Gennaio 2007

Condannati all’eterna giovinezza

Autore: Ilvo Diamanti
Fonte: La Repubblica

Per accorgersi di quanto siamo invecchiati bisogna uscire dal nostro Paese. Non è necessario cambiare continente. Basta recarsi ad Est, nei Paesi della nuova Europa. E guardarsi intorno. Una folla di bimbi. E di giovani “veri”. Allora ci sentiamo vecchi. Altrimenti, chiusi nel nostro mondo, i criteri per misurare il tempo biografico tendono a sfumare. Si perdono. 
Così, si invecchia senza ammetterlo.Mentre, parallelamente, si “istituzionalizza” la giovinezza, come una condizione permanente. “Per sempre giovani”. Il mito faustiano incombe. Assai più che una conquista, evoca una minaccia. Peggio: una condanna. Lo suggerisce l´Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, presentato oggi su Repubblica. 
A un primo sguardo, infatti, colpisce che il 35% degli italiani, con più di 15 anni, si definiscano “adolescenti” (5%) oppure “giovani” (30%). Mentre nella stessa popolazione coloro che hanno meno di trent´anni non superano il 20%. Peraltro, solo il 15 % si riconosce “anziano”. Anche se il 23% della popolazione ha più di 65 anni. D´altronde, da noi, quasi nessuno “ammette” la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani, come mostra un´indagine condotta pochi anni fa (settembre 2003, Demos-Eurisko), comincerebbe solo dopo gli 80 anni. In coincidenza con l´aspettativa di vita. 
In altri termini, in Italia, si “diventa” vecchi solo dopo la morte. Gli italiani. La gioventù, secondo loro, finisce dopo i 35 anni. Però, più invecchiano e più si sentono (e si dicono) giovani. La giovinezza, infatti, per coloro che hanno più di 45 anni, finisce a 40 anni. D´altra parte, non si percepiscono più le fratture chiare di un tempo, quando i cicli di vita erano separati nettamente da riti di passaggio condivisi. Il matrimonio, il lavoro, l´autonomia residenziale. Perlopiù, coincidevano. Perché occorreva avere un lavoro, per potersi permettere una famiglia e una casa. Crescere, superare la soglia della giovinezza: costava sacrifici e conflitti. Perché significava “liberarsi”, guadagnarsi l´autonomia; anzitutto dai più anziani. I padri, i nonni. Per contrasto con il presente, rammentiamo una ricerca condotta nel 1954 in Veneto (in P. Allum e I. Diamanti, 50/80, vent´anni, Ed. Lavoro, 1986). Oltre 1000 questionari rivolti ai giovani dalle associazioni del mondo cattolico. Poche domande, semplici, seguite da alcune righe, a cui gli intervistati potevano reagire liberamente. 
Oggetto: i comportamenti, le attese, le opinioni dei giovani. 
Un disoccupato di 21 anni di Gambellara (non lontano da Vicenza), nella sezione dedicata alla famiglia, risponde quanto segue. 
D: Come ti trovi in famiglia? 
R: Male. 
D: Come ti trovi con tuo padre. 
R: Bene. 
D: Con i fratelli? 
R: Bene (la madre e le sorelle non erano considerate; contavano ancora poco e non minacciavano l´”integrazione” sociale). 
D: Problemi? 
R: Io e la mia famiglia, desideriamo immensamente dividerci e stabilirci con la nostra famiglia per conto nostro ma non possiamo, perché il nonno ci costringe a vivere tutti insieme, per via della campagna. 
D: Come pensi di migliorare i problemi familiari? 
R: Aspetto che muoia il nonno. 
Sono passati oltre cinquant´anni, da allora. Oggi, i nonni possono vivere tranquilli; come i genitori; perché i figli non hanno intenzione di andarsene da casa anzitempo. Solo l´12% degli italiani, infatti, pensa che il passaggio alla vita adulta avvenga quando si va a vivere “in una casa diversa da quella dei genitori”. Mentre per il 20% coincide con il “matrimonio o con la convivenza stabile”. Per diventare adulti contano di più il lavoro stabile (26%) e, soprattutto, la nascita di un figlio (31%). D´altronde, tanto il lavoro stabile quanto la nascita di un figlio appaiono, entrambi, eventi rari. 
Sembra quasi che la società si sia predisposta a un destino di precarietà lunga e indefinita. Che non riguarda più un passaggio specifico della vita. La gioventù come fase di apprendimento, durante la quale è normale “provare”. Sospesa fra anticipazione del futuro e ancoraggio al presente. E´ difficile immaginarla ancora così, visto che l´instabilità è divenuta regola. Mancano riferimenti di valore. Autorità dotate di autorità. Il lavoro, le relazioni, gli affetti. Sono instabili un po´ per tutti. Se l´incertezza è la prerogativa della gioventù, insomma, oggi siamo tutti giovani. D´altra parte le mode, gli stili di vita, mimano la giovinezza eterna. L´abbigliamento giovane, la musica giovane. E poi i trapianti tricologici, i trattamenti estetici, il fitness a ogni costo e a ogni età, il botulino per tutti, il lifting e la liposuzione. 
Per combattere l´età, fermare il tempo (Berlusconi docet). Così, non dobbiamo sorprenderci troppo se l´87% degli italiani condivide l´affermazione che nel nostro Paese “i giovani dovrebbero avere più spazio nelle posizioni di responsabilità”. Gli italiani invocano maggiore spazio per i giovani perché si sentono tutti giovani. D´altronde, lo specchio offerto dalle figure più rappresentative, in Italia, riflette l´immagine di un Paese in cui il tempo si è fermato. Per assurgere alla carica di Presidente della Repubblica occorre avere almeno 80 anni; dieci di meno per guidare il governo oppure l´opposizione. E i “delfini”, le “eterne promesse” che premono, per rimpiazzare Prodi e Berlusconi, hanno l´età di Blair. Oggi, che è a fine corsa. 
Lo stesso vale per i posti di maggior potere: nell´editoria, nella finanza, nelle organizzazioni economiche. All´Università. Dove, mediamente, i ricercatori hanno più di quarant´anni e i professori ordinari circa sessanta. Questa è l´immagine riflessa dallo specchio “pubblico”. E suscita la sensazione, insopprimibile, di un Paese dove si diventa adulti sempre più tardi. Ma non si invecchia. Perché non c´è ricambio. Circolazione sociale. Perché sono invecchiati tutti. Tutti quelli che contano, che fanno opinione. Quelli che decidono. 
Paradossalmente, ma non troppo, in questa società, protesa all´eterna giovinezza, si assiste alla progressiva eclissi dei “giovani” veri, anagraficamente (fra 15 e 24 anni). Osservati, dagli adulti, con un misto di apprensione e malcelato fastidio. Ritenuti, rispetto al passato, più incerti, infelici. Più soli. Ma anche più viziati. Le parole maggiormente usate per definirli (catalogate e analizzate da Natascia Porcellato, di Demos), dalle persone intervistate in questo sondaggio, evocano una generazione “spensierata” e “irresponsabile”. Probabilmente: spensierata perché irresponsabile. 
Visto che larga parte degli italiani pensa che i figli non riusciranno a mantenere la posizione sociale raggiunta dai genitori. I più convinti, al proposito, sono proprio i genitori. La nostra società, in altri termini, soffre di una sindrome da eterno presente. Guarda con nostalgia il passato e con paura il futuro. Per cui sta ferma. Impiantata nell´immediato, che dilata all´infinito. Gli adulti, gli anziani: scacciano dal proprio orizzonte i “giovani più giovani”, perché ne hanno paura. In quanto rammentano loro quanto siano (siamo) divenuti vecchi. I giovani più giovani. Costretti ai margini. Precari. Ma, al tempo stesso, protetti. In libertà vigilata. Perché viaggiano spesso, studiano lontano da casa. Ma poi ritornano. Controllati, a ogni passo, complici i telefonini. Ostaggi di un presente senza certezze. Salvo il fatto che non ci sono certezze, per loro. 
E non possono neppure augurarsi – come quel contadino ventunenne di Vicenza, cinquant´anni fa- la morte del nonno, per liberarsi. Perché i nonni, per fortuna, vivono sempre più a lungo. Sempre più soli. E non tengono prigioniero nessuno. Perché loro, i giovani, sono coccolati come ninnoli. Protetti e controllati. Si libereranno quando avranno raggiunto l´età dei loro genitori. Quando saranno troppo vecchi per accettare di essere invecchiati.