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9 Aprile 2006

Cinque anni dopo

Autore: Giulio Anselmi
Fonte: la Stampa

Chiunque vinca si troverà a gestire una eredità pesante, così pesante che durante la campagna elettorale i contendenti si sono limitati a evocarla senza quantificarne la gravità. Nessuno può farne carico per intero a Berlusconi e al suo governo, ma è paradossale che il premier, passati cinque anni a Palazzo Chigi, continui ad addebitare i guai nazionali a chi l’ha preceduto: non foss’altro perché, sotto la sua gestione, la spesa pubblica ha preso la rincorsa, il debito è arrivato a 1500 miliardi, la crescita è a zero, l’Italia è scesa al ventitreesimo posto nella classifica dei Paesi più ricchi. Chi avesse dubbi sullo stato generale dell’amministrazione metta i piedi in una scuola, prenda un treno o chieda informazioni ai poliziotti delle volanti con la benzina in riserva.


Per affrontare la crisi italiana occorre innanzitutto accettare l’idea della sua esistenza e il tycoon prestato alla politica non ha ancora rinunciato a esibire un ottimismo di maniera – come se dal suo primo giorno di governo vivessimo un’ininterrotta campagna elettorale – che è stato una delle concause dell’arretramento del Paese. Forse è per questo che, al di là di una sequela di vanterie in buona parte infondate e al termine di una serie di attacchi all’arma bianca contro tutti coloro che considera nemici, elettori di sinistra, giornalisti, magistrati, Berlusconi non ha messo in campo un progetto destinato a giustificare questo suo ulteriore mandato. Come non fosse chiaro che, se gran parte della classe dirigente che gli aveva dato fiducia gliel’ha ritirata, è perché la svolta a favore dell’efficienza produttiva non c’è stata e non si è realizzata alcuna rivoluzione liberale.


Prodi sta con i piedi più vicini alla terra e il livello delle sue promesse, per quanto anche in questo caso non sia ben chiaro come possano essere mantenute, resta ben al di sotto di quello della Casa delle libertà: per accrescere le difficoltà degli avversari, il leader dell’Unione sottolinea l’indebolimento sociale delle classi medie, accende i fari sullo stato delle casse pubbliche, individua nel cuneo fiscale un primo rimedio per i produttori, anche se scivola maldestramente nel quantificare i numeri degli interventi fiscali. Ma i delusi del centro-destra non sembrano intenzionati a credergli e il professore non riesce a traghettarli con sé. Lo ostacolano la composita natura della coalizione, gli ideologismi contrapposti, qualche errore che, mese dopo mese, ha eroso la fiducia assoluta che il centro-sinistra aveva nella propria vittoria. Tutto ciò aiuta a capire perché, dopo tanti bluff e tante assicurazioni, sia così basso il numero degli italiani che dichiarano di avere ancora fiducia nei diversi partiti e perché dall’estero rimbalzino sulla nostra pubblica opinione le critiche di osservatori di ogni genere: tutti, Standard & Poor’s per primo, e la maggioranza della stampa internazionale, rilevano come nessuno dei due schieramenti sia pienamente attrezzato e credibile per realizzare le riforme di cui l’Italia ha disperato bisogno.


Ma in democrazia il tempo è scandito dalle elezioni, ciò che è accaduto dalla consultazione del 2001 a oggi deve formare l’oggetto del giudizio. Siamo chiamati a valutare il passato e a misurare le nostre aspettative per il futuro, senza dimenticare che se il bilancio di questo governo è così modesto (non trascuriamo però alcuni aspetti positivi della legge Biagi, della riforma Moratti e di altri provvedimenti che potranno dare frutti) è anche perché la maggioranza ha esaurito tempo prezioso nel varare leggi ad personam per il suo capo, nel guerreggiare con la magistratura e col sindacato, e ha indugiato incredibilmente nell’impostare una politica economica, cullandosi con ipotesi di crescita inesistenti.


Anche se il tambureggiamento berlusconiano, nel suo crescendo degli ultimi giorni, ha prodotto una gran confusione, la campagna elettorale ha fornito la riprova che, cinque anni dopo la vittoria del 2001, le promesse, per gran parte, non sono state mantenute: la Cdl e il suo leader hanno snocciolato più giustificazioni che risultati, alternando macroeconomia a tatticismi, scenari terrorizzanti a beghe di campanile pur di convincere gli elettori che, se non hanno realizzato i sogni, non è colpa loro e che solo rimanendo al potere potranno evitarci i più gravi pericoli. Tra lo sconcerto dei suoi alleati, spento il sorriso e accantonate le barzellette, il leader ha preso a spararle grosse (valga per tutte la vicenda dei bambini bolliti dai comunisti cinesi), tra il rancoroso e l’incattivito, portatore di una violenza verbale da giudizio di Dio in un conflitto anche antropologicamente irriducibile. Solo raramente Prodi lo ha seguito su questo terreno.


Ma il confronto è stato brutto per motivi che vanno al di là dello stile e dei toni. L’hanno caratterizzato, nel complesso, la modestia degli argomenti e il provincialismo: le grandi questioni – a partire dal costo della democrazia, dall’Europa, dalla globalizzazione – non sono neppure state sfiorate, lo scontro è andato polarizzandosi su temi come le tasse. Si è appannata l’idea che gli elettori votano anche per la loro identità e per i loro valori, e che questi non coincidono necessariamente con i loro interessi. Berlusconi ha imposto l’agenda, convinto di precostituirsi così, se non la vittoria, almeno una posizione di forza per il dopo. Ed è tornato sul suo terreno favorito, alternando le promesse ai fantasmi del pericolo per la democrazia e addirittura di brogli elettorali. L’opposizione ha mostrato spesso di essere in affanno.


Questo è l’elemento d’incertezza al termine della campagna elettorale: il leader del centro-destra è partito da una posizione di svantaggio (il logoramento governativo), ma non ha affrontato la battaglia con la rassegnata delusione del centro-sinistra nel 2001, inchiodandolo anzi sulla difensiva con uno spettacolare ribaltamento dei ruoli. E gli studiosi di comunicazione spiegano che se un frame (quadro di riferimento) forte non corrisponde ai fatti, i fatti vengono ignorati e il frame rimane. Fino a che punto, però, la realtà può essere sovvertita dalla propaganda? P.S. Ci sono elettori più sensibili alle promesse, altri, più pragmatici, che preferiscono votare sulla base della prova fornita sul campo dal governo in carica. Io sono un realista: in quanto tale ho cercato di fare un bilancio non ideologico dell’attività dell’esecutivo berlusconiano. E’ evidente quali conclusioni ritengo, personalmente, di trarne.