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24 Gennaio 2006

Chi vuole rilanciare l’Europa

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

I dirigenti di un certo numero di Paesi in Europa non sanno bene la storia che fanno e il destino che attribuiscono a se stessi, quando s’ostinano a dire che l’unità politica del nostro continente è un sogno tramontato, che il più grande errore dopo la fine della guerra fredda fu di concentrarsi sulle istituzioni comunitarie, che i popoli stessi hanno messo fine alla grande illusione dell’Europa politica, votando in due Paesi (Francia e Olanda) contro il trattato costituzionale. Credono di aver recuperato in tal modo la sovranità nazionale che avevano, e invece di sovranità ne hanno poca perché da tempo ormai quest’ultima si esercita non in un’unica sede ma in sedi diverse (municipio, regione, nazione, Europa, mondo).


Credono di far politica ma invece la screditano, e la loro stessa prodezza ha qualcosa di effimero e passionale, essendo adatta alle campagne elettorali ben più che al governare. Hanno disprezzo per le istituzioni europee, e questo disprezzo li porta a misconoscere le istituzioni stesse dei propri Stati, e la vocazione che esse hanno a durare nel tempo, a oltrepassare questo o quello schieramento, a divenire patrimonio collettivo di un popolo o di un’unione di popoli.

Questa visione accomuna uomini come Berlusconi in Italia, come Blair in Inghilterra, come Vaclav Klaus nella Repubblica Ceca, come le nuove destre nazionaliste in Polonia, come un gran numero di dirigenti francesi dopo il referendum di maggio. Sono i grandi spregiatori della politica, sono macchine fatte per conquistare il potere più che esercitarlo. Sono finti sovrani, ma si comportano come se fossero sovrani assoluti.

Per questo non usano riconoscere alcun tipo d’autorità sopra se stessi: né l’autorità delle istituzioni europee, né l’autorità di istituzioni nazionali neutre, come avviene in Italia per i rapporti tra governo e Quirinale. Sono bravi nell’effimero e nell’ubiquità spettacolare, non nel durevole e nel silenzio tenace dei tempi lunghi.


È significativo quel che Berlusconi dice dei politici di professione e del conflitto d’interessi che caratterizza la sua militanza e il suo governare. Lui, almeno, si occupa di interessi concreti, anche quando dà preminenza ai propri. Gli altri, non facendo affari ma solo politica, mostrano di essere «fannulloni e nullafacenti che nella vita non hanno realizzato nulla».

Per i politici-non politici che la pensano come Berlusconi il mercato e le corporazioni occupano uno spazio centrale, il cui potere non è arrestato e controbilanciato da alcun altro potere.

Per questo giudicano morta la Costituzione europea e finita l’Europa politica: Montesquieu è loro estraneo, dentro e fuori casa. Argomenti simili sono ricorrenti in parte della destra italiana: nelle loro mani, i referendum anti-europei vengono usati come arma di politica interna, non si sa quanto efficace ma il più delle volte inappropriata.

Vengono usati per screditare l’opposizione che fece entrare l’Italia nell’euro a condizioni che all’epoca non potevano essere migliori, e per dichiarare decaduto un sogno – quello dell’Europa politica – che di certo non appartiene solo a Prodi. L’arma è inappropriata perché dilata smisuratamente il no alle istituzioni e al trattato costituzionale dell’Unione.


Le forze anti-europee sono numerose e possiedono una eloquenza altisonante, è vero, ma non tutti sono rassegnati a questo fatalistico cupio dissolvi, che anela alla dissoluzione del progetto europeo e si basa sul no pronunciato nella nazione ancor ieri egemone del continente che è la Francia.

Non tutti accettano questa sorta di monopolio che Parigi ha fin dall’inizio esercitato sui modi in cui l’Europa si è costruita, e che continua a esercitarsi anche quando la Francia ha smesso la passione di edificare per concentrarsi sulla passione di distruggere.

È una supremazia che mira a conquistare le menti, le volontà, le ambizioni di un’Unione fatta di venticinque popolazioni e non di un solo popolo scontento, disilluso e risentito. La maggioranza di questi venticinque ha già fatto sapere in maniera chiara di volere una costituzione, e di desiderare i miglioramenti che il trattato promette alle istituzioni d’Europa.

La maggioranza degli Stati (tredici su 25) ha già votato sì alla costituzione, attraverso referendum o ampie maggioranze parlamentari. Ma c’è un Paese, soprattutto, che non intende buttare tutto quel che è stato fatto negli ultimi quindici anni, per edificare e migliorare le istituzioni d’Europa e il loro rapporto con le istituzioni nazionali.

Questo Paese è la Germania, che ai tempi di Helmut Kohl rinunciò al marco proprio perché dall’euro si aspettava un passaggio più facile all’Europa politica federale.


Oggi il cancelliere Angela Merkel riprende quel cammino, di cui Schröder si è occupato poco, e come si è visto nel negoziato sul bilancio europeo, è perfino disposta ad aumentare i contributi finanziari pur di ottenere più unità fra i Venticinque.

A chi le dice che l’Europa delle istituzioni e della costituzione è morta, il nuovo Cancelliere risponde in sostanza così: non è morta, visto che il nostro popolo in Parlamento ha detto di volerla con tanta forza.

E forse in cuor suo pensa: quel passaggio dalla moneta all’Europa politica, che Kohl immaginava spontaneo, adesso bisogna forzarlo. L’atteggiamento tedesco se dovesse confermarsi è vera arte politica, che altrove manca.

Il che vuol dire: è senso di continuità, ostinazione, rifiuto dell’alternativa immobilizzante fra tutto e nulla. Ed è negoziato duro, tenace, per persuadere i reticenti e giungere con essi al più alto compromesso possibile.

Questo era per Jean Monnet il far politica in Europa: non rinunciare mai alla costruzione di istituzioni, perché «niente esiste senza le persone, ma niente dura senza le istituzioni».


E ricominciare ogni volta da capo, quando si fallisce, ma sapendo che in fondo si tratta solo di non farsi fermare e proseguire la via intrapresa: «D’abord continuer, ensuite seulement commencer – prima viene il continuare e solo dopo il ricominciare», usava dire il fondatore della Comunità.

Precisamente questo sembra voler fare Angela Merkel: senza bruciare troppi ponti alle spalle, continuare con più lena l’opera iniziata e non cader preda dei discorsi rivoluzionari sulla fine della storia e dell’Europa politica.

Farsi forte del voto positivo sulla Costituzione espresso in un gran numero di Paesi, e con questa forza presentarsi al negoziato che toccherà fare con la Francia, il giorno in cui essa avrà un Presidente meno inerte di Chirac. La via migliore sarebbe quella di non interrompere le ratifiche costituzionali, nei vari Paesi.

Sarebbe l’unico modo per evitare il ricatto parigino del no, e per far capire che nell’Unione esiste un voto, a favore delle istituzioni europee, che non è meno democratico di quello francese. Lo stesso no francese è più ambiguo di quanto si creda. È stato calcolato che l’80 per cento dei favorevoli alla costituzione intendeva dire sì all’Unione.


Ma una percentuale alta (il 60 per cento) intendeva dire sì all’Unione anche nel fronte di chi ha respinto il trattato. Ne chiedeva probabilmente un altro, e dunque: chiedeva che i governi si rimettessero a far politica, aggiustando quello che era stato rotto.

Tutto, a partire da questa rivalutazione della politica e delle istituzioni, diventa a questo punto possibile: indire un nuovo referendum istituzionale, che questa volta sia simultaneo nei Paesi dell’Unione; accorciare il testo costituzionale, concentrandosi sui suoi primi due capitoli (diritti del cittadino e funzionamento delle istituzioni).

Oppure creare un’Unione più stretta fra gli Stati che lo vogliono, come suggerito da Chirac e dal ministro Sarkozy. Infine, è possibile aggiungere paragrafi sociali che tengano conto dei timori di parte dell’elettorato, come prospettato ultimamente a Berlino.

Tutto si può negoziare, purché il compromesso resti alto: questo significa far politica, apprendendo dalle impotenze passate dell’Unione, dagli errori commessi e dai suoi momenti di forza.

Apprendere dai propri errori non è il punto forte di chi è giunto alla conclusione che la politica sia un mestiere esecrabilmente monotono, da fannulloni. Costoro sono tuttora affascinati da Blair, anche se Blair ha fallito uno dopo l’altro gli obiettivi che aveva preteso incarnare nel semestre in cui ha presieduto l’Unione.

Il premier inglese ha in realtà profittato della malattia del continente per proporre un’Unione sempre più vasta, senza chiari confini, più inventiva economicamente ma priva di istituzioni forti che limitino il potere di veto che ciascuno Stato – a cominciare da quello inglese – può opporre all’Europa: questo era il senso del discorso che tenne il 23 giugno al Parlamento europeo, e che ammaliò tanti italiani ed europei.


È un discorso che piace a Berlusconi: per l’Europa non c’è più nulla da fare se non far valere il proprio paralizzante ma rumoroso diritto di veto, insegna Londra. È un diritto alla retorica e alla non-politica, nelle nazioni e in Europa.

Se non si usano i referendum anti-europei per svalutare l’idea stessa di politica e delle istituzioni, allora si possono fare grandi cose, partendo dalla crisi di fiducia e di democrazia apertasi nel 2005.

Basta ricominciare a continuare, come direbbe Monnet. Basta smettere di agire come negli ultimi sette mesi: concedendosi «pause di riflessione», mettendosi ad aspettare passivamente le presidenziali francesi del 2007.

Pause di riflessione e attese sono qualcosa per l’individuo, per l’intimità. Applicate alla politica, sono eufemismi dietro i quali si nascondono volontà d’impotenza, pigrizia mentale, incapacità d’agire bene fin da ora per preparare quel che si attende.


«Questa non è una crisi delle istituzioni europee. È una crisi di leadership politica», aveva detto Blair a giugno. È vero, i dirigenti che da molto tempo abbiamo davanti non sanno né governare, né dirigere, né convincere.

Sono governanti che pretendono di dar retta ai popoli, senza neppure accorgersi che la democrazia esige il rispetto di ben 25 popoli, nell’Unione europea. Ma una leadership politica si distingue per la sua capacità di dare, ai propri cittadini, istituzioni che non crollino continuamente.

È questo legame che Blair non ha voluto riconoscere: senza istituzioni, il politico è come un uomo senza bussola, che deciderà assai poco con la propria testa e si farà sempre guidare, nel mondo, dai più forti e più furbi di lui.