22 Luglio 2004
Chi parla, chi ascolta
Autore: Sergio Zavoli
Fonte: l'Unità
Ho un piccolo capitale che devo prima di tutto all’anagrafe, cioè all’aver speso mezzo secolo di questo mestiere anche per capire “che cosa vuole la gente” dall’informazione politica. Non è un paradosso: vuole prima l’informazione, poi la politica. Ma non sono tutt’uno, se l’una si compenetra nell’altra?, dice il buonsenso.
In realtà, quando la notizia è politica, la “gente” – Beniamino Placido non ama che la si chiami così, ma non trovo un sinonimo che la umanizzi di più – ha non di rado il sospetto che voglia farti credere ciò che non è, nascondendo, posponendo, invertendo come nel gioco infido delle tre carte.
E non mi lascio condizionare dalla graduatoria dell’Unesco, sebbene, inopinatamente, ci assegni il 40° posto mondiale tra “le nazioni che più rispettano la libertà d’informazione”, una classifica la cui attendibilità non mi sembra accreditarsi collocandoci, per giunta – lo dico con il massimo rispetto – subito dopo il Ghana. Del resto, non è nata in Inghilterra, madre della libertà e dei parlamenti, la sarcastica definizione della politica come l’art of lying, “l’arte del mentire”? E’ pur vero che poi, nella vita pubblica inglese e americana, la menzogna, se provata la malafede, stronca per sempre una carriera politica. A proposito, bel colpo mister Bush e mister Blair! Finalmente è provato che quella in Iraq è stata una guerra bugiarda, fondata su menzogne – di informatori, nientemeno, istituzionali – che i due governi hanno preso per verità.
La gente ha spesso il sospetto dell’inganno, anche se non sa spiegarselo: per esempio, dopo oltre cinquant’anni di prima Repubblica, si continua a pensare la politica secondo il vecchio schema ancorato ai partiti, talvolta simili a strutture dinastiche, mentre la scelta del maggioritario viene vissuta come un temporaneo seppellimento di quel sistema. Infatti sta via via riaffiorando la nostalgia, oggi si chiama identitaria, delle appartenenze passate, ovverosia del proporzionale, in cui si vede la miglior tutela di tre valori: identità, distinzione, visibilità. Non si dà, invece, la dovuta importanza al fatto che la Prima Repubblica è stata una democrazia bloccata, cioè senza ricambio, fino alla caduta dei muri; e che il maggioritario ha offerto una vera possibilità di alternanza, mettendo l’elettore in grado di decidere chi mandare al governo. Il maggioritario è un sistema certamente non sofisticato, forse un po’ rozzo, ma efficace, e ha consentito di affidare il potere esecutivo prima a uno schieramento di centro-destra, poi a uno di centro sinistra e di nuovo al centro-destra. Anche se non va taciuto che, con opportuni accorgimenti, il proporzionale può concorrere a un’effettiva alternanza, e in Europa non mancano gli esempi.
Tenuto conto, dunque, delle remore ancora presenti nel Paese, andrebbe spiegato ai cittadini, attraverso un’informazione non tecnicistica, né paludata, che il processo democratico dovuto agli scenari mutati, all’interno e all’esterno, esige una prospettiva, una strategia e una sintesi nuove, tali da potersi misurare con una realtà in continua, e talvolta persino tumultuosa, trasformazione. Basti pensare all’improvviso precipitare della crisi del centro-destra – compreso il sibilo di Bossi, “Traditori!” – che sta alterando sostanzialmente la
tenuta della maggioranza, e quindi del quadro politico. D’altronde, chi oggi non ha motivi per rallegrarsene, aveva visto la novità impersonarsi nella sua immagine più ammiccante e seduttiva: il berlusconismo. Ma il liberarsi delle forme liturgiche della politica – con la chiusura di tutti i suoi forni storici e l’affidamento della panetteria, per dir così, alla “grande distribuzione” – ha generato l’idea che dal discredito della politica, addirittura dall’antipolitica, dovesse scaturire l’unica politica superstite e vittoriosa, coincidente con un progetto di facilità, di benessere e di sicurezza mai promesso prima al Paese.
Sennonché, al primo scuotimento prodotto da un’opposizione finalmente unita, é seguíto una sorta di risveglio dell’ “identificazione”, frutto dei bilanci – a destra e a manca, di segno simile e opposto – dell’ultima tornata elettorale. Anche il centro-sinistra, dunque, non ne è rimasto del tutto esente. Per una sorta di euforia, ma insieme di preoccupazione, di fronte al recente successo – quasi fossero così lontane le prossime scadenze da potersi concedere chissà quanto tempo – manifesta l’ennesima tentazione di sparigliare le carte, come se da una sindrome degli apparentamenti e delle distinzioni non riemergesse il sospetto che si stiano ricercando – con nessuna, o scarsa, saggezza – formule tendenti a riconoscersi, anziché nel centro-sinistra, nel suo centro o nella sua sinistra, per ciò stesso minando la resistenza del ponte lanciato, nelle due direzioni, dalla lista Prodi. All’interno
dello schieramento politico complessivo, inutile negarselo, è alle viste un neo-centrismo che aspira, per sé, a un antico ruolo.
Se il fronte più interessato all’alternanza non dovesse trovare una rapida e chiara composizione dei suoi problemi, finirebbe per restituire al premier, temo, quei quattro milioni di elettori che, riluttanti a confermare sudditanze psicologiche e politiche ormai usurate, si sono concessi un voto di astensione e d’attesa. E se il laboratorio politico continuasse a prodigarsi in sofisticate accademie politologiche – talvolta al limite di astruserie verbose, più irresolute che prudenti – ecco gli sconfitti del 2001, nonostante la vittoria del 2004, pronti a farsi nuovamente del male.
Il centro-sinistra, al punto cui è ridotta la compagine governativa, deve sin d’ora, cioè súbito, unirsi intorno alla proposta di un programma chiaro, convincente e risoluto, capace di attirare consenso, e poi voti, sui temi cruciali dell’economia, del lavoro, della sicurezza, della sanità, dell’istruzione, della ripresa produttiva, della competitività e, più in generale, delle riforme. E’ questa la sola base di una coalizione in grado di vincere e di durare.
Ciò premesso – chiedo scusa per la sommarietà – mi preme arrivare a un’altrettanto veloce, e spero chiara, conclusione: il vocìo, frutto di un malinteso diritto democratico a dire, ridire e disdire, provoca uno sconcerto grave in chi crede, invece, che per gestire una vittoria politica non si possa soltanto tenere sulla corda lo sconfitto, imputandogli, sacrosantamente, i guasti prodotti nel Paese, senza dichiarare, fuori da ogni infingimento, come s’intende agire perché l’alternanza abbia un senso plausibile e forte. Un pur giustificato cipiglio verbale, cui non si accompagnasse una proposta alternativa, genererebbe persino qualche dubbio sulla perentorietà e la fondatezza della stessa denuncia. L’ha spiegato esemplarmente Andrea Ranieri nel dibattito dedicato dalla Festa nazionale dell’Unità, a Sarzana, proprio all’informazione, al quale ho preso parte: non si dovrà lasciar credere che ci siamo a nostra volta piegati all’esigenza spettacolare, soprattutto televisiva, di mettere in scena anche la politica. L’abuso di questa pratica, si è visto, non premia.
Per uscire dal vocìo, e riprendere la sua voce, il centro-sinistra dovrà affrontare, com’è nel fermo proposito di Fassino, un dibattito ormai stringente, attraverso cui giungere a un programma comune; che in quanto tale non mortifichi questa o quella identità, ma neppure faccia passi indietro rispetto alla prova elettorale del giugno scorso, inaugurata dal primo, serio, organico tentativo di costituire un blocco deciso a crescere e a consolidarsi. Va dichiarato al Paese un progetto non fittizio né strumentale – cioè non il “patto con gli italiani” di sola facciata concepito dal liberal-populismo – che trovi la sua fondatezza, priva di iattanza e inderogabilità, nella lista che Prodi ha messo a punto, con i suoi alleati, in nome non soltanto del dinamismo, ma anche dell’intelligenza, della politica. Se essa non si darà un carattere e un’etica tali da superare le grida manzoniane – proponendo, più che puntando il dito – dovremo far conto di avere vinto solo una battaglia, in attesa che la guerra ricominci dopo l’estate, quando verranno a scadenza problemi pesanti, che potrebbero
non gravare più sugli errori, bensì sull’attendismo dell’opposizione. Tutto, presto, tornerà a galla. E la gente vorrà, sì, occuparsi di politica – e quindi leggere, ascoltare, vedere – ma per capire perché, come e quando si è vincenti o perdenti. Deluderla è più facile che trattenerla e farla crescere: basta dimenticare, per mero politicismo, la politica.
Quel che occorre è di essere pronti non a un “otto settembre” senza guida e certezze, ma a una tempestiva assunzione di responsabilità aperte, nette, condivise. In nome di un’unità che comprenda tutto.
E allora, primum informare! Va detto all’opinione pubblica, con l’austerità che lo strappo richiede, chi siamo e cosa vogliamo, nell’idea che federare le forze del riformismo sia il primo obiettivo, non quello di sentirsi appagati per aver messo in moto, intanto, un berlusconismo senza Berlusconi, o viceversa. Bertinotti, sull’argomento, ha detto: “Si assiste a un logoramento del sistema di fronte al quale occorre il coraggio di una mossa del cavallo (come negli scacchi, n.d.a.). Inutile cercare quarti di nobiltà per il leader più bravo. Se si è chiuso questo ciclo politico, bisogna tornare al primato delle coalizioni sui leader”
Tanto più che il leader c’è già.