La distanza fra Bruxelles e i leader europei forse non è mai stata così grande. Non si tratta solo di animosità. E’ una questione di linguaggio: si parlano due lingue diverse, fra le venti praticate nell’Unione. Oggi la Commissione presenterà un rapporto per rivitalizzare la stagnante economia europea in cui si mette al primo posto la riduzione del debito pubblico e la conduzione di politiche di bilancio rigorose mentre il neo-Commissario alla Concorrenza, Neelie Kroes, appare intenzionata a tollerare aiuti di Stato solo alle piccole imprese. Messaggi che suonano in stridente contrasto con le conclusioni del vertice italo-francese e, ancora prima, con le dichiarazioni di Chirac e Schroeder alla presentazione dell’Airbus, tutte improntate alla richiesta di un Patto di Stabilità e Crescita più flessibile e al sostegno pubblico ai grandi «campioni nazionali» o europei.
Facile ironizzare sui «campioni», sugli «incredibles», su questo struggente rimpianto dei super-eroi, presentati sotto nuove vesti per non ricordarci dei debiti lasciatici in eredità da Iri, Efim e Gepi, il cui pagamento oggi impone i vincoli più stringenti alle nostre politiche di bilancio. Più produttivo sforzarsi di capire le ragioni dei grandi governi del Continente. Si sono trovati dapprima a rinunciare alla possibilità di manovrare il tasso di cambio, poi si sono visti ridurre i gradi di libertà nella conduzione della politica di bilancio. Vedono oggi una Commissione che esercita solo un potere negativo, di divieto, peraltro sempre più intrusivo perché oggi la politica della concorrenza entra sempre più nel vivo di interessi, di imprese (come nel caso di molti servizi e delle libere professioni) che operano solo ed esclusivamente su scala nazionale.
Non è piacevole stare in mezzo al guado e la tentazione di tornare indietro è sempre molto forte. Meglio sarebbe completare l’attraversamento mettendo in condizione le autorità soprannazionali europee di fare e non solo disfare e proibire, governando su quei terreni su cui si può meglio operare su scala europea. Si tratta delle politiche dei trasporti (a partire dal settore aereo) e dell’energia in cui le economie di scala sono tali che frammentando l’offerta si perde moltissimo in efficienza. Ma vi sono anche le politiche a sostegno della ricerca, che, gestite a livello europeo, possono meglio sfuggire alle forbici di governi e contemplare interventi concentrati su pochi centri di eccellenza, in grado di far avanzare tutta l’industria europea, anziché essere dispersi in mille rivoli per far fronte a pressioni locali. Per non parlare delle politiche a sostegno della mobilità dei capitali e delle persone, che richiedono un coordinamento su scala europea anche perché spesso si è disposti a liberalizzare solo se gli altri fanno altrettanto. Ricordiamoci quanto successo con l’allargamento a Est: uno dopo l’altro i governi hanno chiuso le frontiere ai lavoratori dei Nuovi Stati Membri perché temevano che orde di immigrati, respinti ad altre frontiere, venissero da loro.
Ma da un punto di vista strettamente nazionale è difficile vedere questi vantaggi che derivano da una gestione comune delle risorse. Si pensa solo a cercare di riportare a casa ciò che si è dato. Escludendo a priori la possibilità di allargare la torta per portare a casa di più di quanto si è dato. Non è solo la cultura del mercato che manca oggi a molti leader europei. Forse lo è ancor di più la cultura del bene pubblico.