29 Marzo 2007
Arturo salvaci tu
Grandi manovre nel centrosinistra
Autore: Marco Damilano
Fonte: L'Espresso
L’ultima volta che si sono incontrati, la settimana scorsa, Francesco Rutelli ha provato ancora una volta a convincerlo: «Arturo, i popolari mi stanno accerchiando, dobbiamo tornare all’ispirazione iniziale della Margherita, quella di cui io e te siamo fondatori».
“Arturo”, il professor Arturo Parisi, non ha per niente gradito la mozione degli affetti. «Ci siamo scontrati troppe volte in questi anni», ha risposto il ministro della Difesa, ricorrendo a una metafora bellica. «Posso arrivare a prometterti che non ti farò la guerra, forse. Ma non puoi chiedermi di fare la pace». Quella di Parisi non è una scelta di neutralità, anzi. Nulla di quanto sta accadendo nella Margherita lascia indifferente l’inventore dell’Ulivo. Arrivati a venti giorni dal congresso di Cinecittà il partito di Rutelli è sull’orlo dell’implosione. Dilaniato dallo scontro tra il leader, sempre più isolato, e il Tridente dei popolari (Dario Franceschini-Enrico Letta-Giuseppe Fioroni).
Una guerra che si estende al governo: Rutelli invita i ministri a non partecipare al “Family Day” del 12 maggio organizzato dalle associazioni cattoliche, Fioroni gli risponde a brutto muso: «Io faccio quello che mi pare, non ho bisogno di compagnia». Il primo assaggio di quello che potrebbe avvenire tra il 20 e il 22 aprile negli studios di Cinecittà, già magnificati da Rutelli come luogo di incontro tra «il genio di Fellini e i popolani romani», fino all’esito più devastante: l’abbandono del leader. Dimettersi dalla guida della Margherita prima di finire commissariato o, peggio, rovesciato. La scissione dei rutelliani dal partito di Rutelli. La minaccia, fatta circolare dai fedelissimi del vice-premier, ha ottenuto almeno un risultato.
Per rassicurare Rutelli si è mosso il presidente del Senato Franco Marini, capo indiscusso dei popolari, ma ben attento alla regola numero uno degli antichi romani e dei democristiani, divide et impera. Per Marini le dimissioni di Rutelli sarebbero disastrose, ma ancor più difficile sarebbe scegliere un erede all’interno del Tridente: agli occhi di Marini Franceschini, Fioroni e Letta continuano a essere ragazzi da coltivare, nonostante la loro età si aggiri ormai tra i quaranta e i cinquant’anni.
Anche Parisi sta valutando che fare, se partecipare e in che modo al congresso della Margherita. Andare e intervenire in piena libertà, anche a costo di dire all’uditorio qualche parola sgradevole. Oppure non partecipare per niente, disertare il congresso di un partito in cui il ministro si è sentito in minoranza fin dall’inizio. Al congresso di Parma, nel 2002, di buon mattino salì su un treno e abbandonò i lavori spedendo un sms a Rutelli in cui spiegava di non riconoscersi «in quello che sta nascendo». Scatti d’umore? Macché: oggi come ieri Parisi non si ritrova in un Partito democratico fondato sull’asse tra ex democristiani e ex comunisti, tutto rivolto al passato. «Mi sembra un incubo», si è sfogato il ministro con il popolare Pierluigi Castagnetti che dell’asse è un convinto sostenitore. E sta preparando le contromisure: non a caso negli ultimi tempi, dopo un lungo periodo di freddezza, Parisi è tornato a conversare con il sindaco di Roma Walter Veltroni.
Due personaggi che hanno parlato di Pd in tempi non sospetti e che, per motivi diversi, sono insoddisfatti della creatura. In preparazione c’è un incontro a Roma, da mettere in piedi subito dopo Pasqua, nei giorni precedenti ai congressi di Ds e Margherita, per chiamare a raccolta gli esclusi di questi mesi: i non iscritti ai partiti, il popolo delle primarie, gli elettori del centro-sinistra che rischiano di trasformarsi nei grandi delusi del Partito democratico. I movimenti, le associazioni, gli intellettuali, le correnti uliviste di Ds e Margherita, le liste civiche, una parte del comitato referendario. E, naturalmente, il nume tutelare dell’Ulivo, il premier Romano Prodi.
Nei piani, ovviamente, serve a rilanciare il progetto del Pd. Ma nella realtà darà voce allo scontento per come sono andate finora le cose, alla vigilia dei due congressi di Ds e Margherita che si annunciano al calor bianco. Nei Ds, c’è la resa dei conti tra Piero Fassino e la sinistra interna di Fabio Mussi. Nella Margherita, dove tutti sono formalmente schierati con la stessa mozione, siamo alla guerra per bande. Basta scorrere le notizie arrivate dalla periferia nell’ultimo fine settimana: due coordinatori cittadini eletti a Pescara in mancanza di accordo tra i capicorrente; un ordine del giorno approvato in Lombardia che reclama i pieni poteri all’Assemblea nazionale; il parlamentino del partito dove i rutelliani sono in minoranza: di fatto, il commissariamento del leader. Dalla Sicilia, da Siracusa, arrivano addirittura voci di un
cospicuo pacchetto di iscritti-fantasma: tesserati sia per la Margherita che per Forza Italia. Anime morte bipartisan.
La situazione più rovente è nel Lazio, la regione di Rutelli, dove votano molti big della Margherita e dove si fanno le prove generali del congresso nazionale. Da mesi la guida del partito regionale è stata promessa a un fedelissimo del vice-premier Mario Di Carlo, ma il patto tra rutelliani e popolari è saltato. Non si sa neppure con esattezza chi ha eletto i 174 delegati di Roma. Sul congresso che li ha nominati pesa un ricorso per gravi irregolarità: a Roma i tesserati risultano sulla carta oltre 49mila, perché il congresso fosse valido avrebbero dovuto votare almeno 15mila iscritti, un terzo. Nessuno li ha visti: sedie vuote e seggi deserti. A presentare il ricorso è stato l’iscritto Mario Adinolfi, molto di più di un semplice tesserato: influente giornalista-blogger, leader di un movimento giovanile (Generazione U), autore di una rubrica sul quotidiano della Margherita “Europa”, consulente del senatore Willer Bordon. Il ricorso è stato accolto dalla commissione nazionale di garanzia che ha chiesto a Roma i verbali del congresso per ben tre volte. Ma di quei verbali, per ora, non c’è traccia.
Tesseramento gonfiato, delegati fantasma, numeri in bilico. Al congresso regionale del Lazio, in programma per il fine settimana, c’è quasi parità tra i seguaci di Rutelli e i popolari. Potrebbero essere determinanti gli uomini di Parisi, deputati eletti o residenti
a Roma come Mario Barbi e il ministro prodiano Giulio Santagata. Ma la loro partecipazione all’assemblea non è scontata: l’assenza sarebbe il segnale che anche Parisi ha deciso di mollare la Margherita al suo destino e di rafforzare quello che nel Pd ancora non si è visto, il terzo incomodo, il soggetto ulivista che raccoglie trasversalmente diessini e margheritini inquieti e tutto ciò che non si riconosce nei due soci fondatori. «Una componente molto forte nell’elettorato, ma molto debole nel ceto politico», spiega Salvatore Vassallo, l’uomo dei gazebo, il politologo che al seminario di Orvieto dello scorso autunno terremotò i partiti con la proposta di eleggere i nuovi vertici del Pd con le primarie. «Serve un federatore, qualcuno che dia voce a questa componente che esprimerà il futuro leader del Pd, come Prodi è stato il leader dell’Ulivo».
Anche Parisi la pensa così: per questo si prepara a dare battaglia, ancora una volta. In attesa che arrivi il federatore: Prodi non c’è più, troppo preso a governare, Veltroni non c’è ancora, per ora il professore sardo deve giocare in proprio.