11 Luglio 2005
Ammissione di un errore
Autore: Gabriel Bertinetto
Fonte: l'Unità
Una gran voglia di andarsene. Un gran timore di ammetterlo. Il timore che quella brama di richiamare le truppe sia percepita dall’opinione pubblica per ciò che in effetti è, cioè il riconoscimento di avere sbagliato e il tentativo di rimediare, seppure tardivamente, al disastro che si è combinato in Iraq.
Il disastro di una guerra che anziché sconfiggere il terrorismo, ha trasformato la Mesopotamia nella roccaforte degli estremisti islamici armati. Ed allora, ogni qual volta il tema tabù del ritiro affiora nei discorsi dei leader dei paesi occupanti, ecco subito, a ruota e quasi automaticamente, l’aggancio a quello che vorrebbe essere un controargomento, ed è invece solo un esorcismo logico: comunque rimarremo fino a quando lo esigeranno le condizioni di sicurezza in loco e finché ce lo chiederà il governo di Baghdad.
Ben prima delle dichiarazioni rese l’altro giorno in Scozia, sapevamo quanto Berlusconi desiderasse sganciarsi dall’impegno militare. Cacciatosi nel vicolo cieco dell’intervento, per l’incapacità di elaborare una politica estera autonoma e lungimirante, che fosse sensibile tanto agli interessi nazionali quanto alle esigenze di una pacifica e ordinata convivenza internazionale, Berlusconi si è ormai accorto quanto sia stato controproducente da tutti i punti di vista sdraiarsi ai piedi di Bush ed eseguirne ogni desiderio.
Non solo ha contribuito allo sfacelo iracheno, ma non ne ha tratto nemmeno alcuna egoistica contropartita politica. Sperava in una partecipazione privilegiata alla ricostruzione del paese, e invece saranno gli Usa, quando mai la ricostruzione inizierà, ad accaparrarsi tutti i contratti più appetitosi.
Contava sull’appoggio americano per ottenere un ruolo più pesante all’Onu, e Washington sostiene invece semmai il Giappone o la Germania. S’illudeva che attestandosi sulle retrovie di Nassiriya, sarebbe rimasto al riparo dal fuoco nemico, e invece abbiamo subito perdite pesanti, mentre incombe la minaccia di attacchi terroristici sul nostro stesso territorio. Come a New York, Madrid, Londra.
Da mesi Berlusconi quando parla di Iraq, si lascia scappare (di proposito) accenni eloquenti al richiamo delle truppe. Naturalmente poi viene smentito da Washington, corregge il tiro, assicura di essere stato frainteso.
Ma non è casuale che l’annuncio del rientro di 300 soldati a settembre, sia arrivato all’indomani delle stragi di Londra e delle esplicite rinnovate minacce di Al Qaeda all’Italia. Non sono le bombe nella City ad aver piegato Berlusconi. Ma certo gli hanno dato uno stimolo o un pretesto supplementare.
Così come sarebbe ingenuo credere che il ministero della Difesa di Londra non abbia di proposito lasciato filtrare proprio ora le indiscrezioni sui piani di una drastica riduzione dei contingenti britannico e statunitense in Iraq.
Le ragioni del progettato massiccio sgombero vanno oltre la tragica contingenza della carneficina di giovedì scorso: Londra e Washington hanno finalmente capito (come rileva Tim Ripley, analista del periodico Jane’s Defence) che il contrasto del terrorismo urbano «si addice di più alla polizia ed alle forze speciali» che non agli eserciti, e che rimanere in forze sul posto anziché lasciare agli iracheni il compito di autodifendersi, equivalga semplicemente a «fornire un bersaglio».
Ma ora questo tipo di valutazioni possono essere sottratte al segreto delle elucubrazioni riservate degli alti comandi e dell’intelligence, e somministrate al pubblico, ottenendone un doppio vantaggio: cominciare a mettere in circolo, naturalmente condita di cautele, precisazioni e parziali smentite, l’idea che dall’Iraq bisogna andare via, e secondariamente offrire ai cittadini disorientati e sfiduciati qualche motivo di preoccupazione in meno.