2222
5 Aprile 2007

Amato: “La bozza Chiti è insufficiente. Torniamo ai collegi uninominali”

Autore: Massimo Giannini
Fonte: La Repubblica

Roma – «Noi dobbiamo far dimenticare ai cittadini-elettori
la mostruosità dei “listoni” delle ultime elezioni. L’accordo raggiunto
nell’Unione non mi pare la soluzione definitiva del problema: è solo un testo
preliminare, sul quale bisognerà ancora lavorare molto».

Giuliano Amato
spariglia. Come già gli capitò con la proposta di Convenzione sulla riforma
elettorale, il ministro degli Interni fissa i suoi paletti sul compromesso di
tre giorni fa nel centrosinistra, che ha scontentato parecchi ulivisti. «Resto
convinto che la formula migliore sia il ritorno al collegio uninominale»,
annuncia il Dottor Sottile, che rilancia anche il suo appello sul Partito
Democratico: «Una scissione nei Ds sarebbe un assurdità, così come sarebbe
insensato se si sfilassero i socialisti. Dobbiamo accelerare la fase
costituente. E tutti devono partecipare. Non solo gli altri partiti, ma anche il
popolo delle primarie».

Ministro Amato,
la soddisfa il compromesso raggiunto nell’Unione sulla riforma
elettorale?

«Partiamo da una premessa. Cosa dobbiamo correggere nel
sistema attuale? Siamo tutti d’accordo sul fatto che quelle lunghissime liste di
candidati sono state la fonte di maggior disamore da parte dei cittadini, già
così poco propensi ad innamorarsi della politica. Io resto convinto che la
ferita dei “listoni” non si cura con il ritorno delle preferenze, che restano un
rimedio peggiore del male. La vera soluzione, per me, è invece il ritorno al
collegio uninominale, e con tanto di primarie di collegio sul modello della
civile Toscana. Oppure, in alternativa, l’introduzione di circoscrizioni più
piccole, con un numero di candidati non superiore a 5 come avviene in Spagna, e
anche qui con tanto di primarie di circoscrizione».

La sua ricetta quindi
è diversa da quella concordata dai partiti del centrosinistra con la bozza
Chiti, che invece continua a prevedere il premio di maggioranza?

«Mi
colpisce che l’Italia sia l’unico Paese europeo in cui si ricorre al premio di
maggioranza. Perché solo in Italia la politica non è in grado di esprimere una
maggioranza, senza bisogno di una protesi che la renda possibile? Questo è il
nostro tragico limite: tanti più sono i partiti, tanto più ci si riduce per
assemblarli al premio di maggioranza».

E lei non condivide, evidentemente?
«Di
sicuro non condivido il premio di maggioranza della legge vigente che è abnorme,
in quanto va alla coalizione che ha preso più voti: persino la legge Acerbo era
più “moderata”, visto che escludeva il premio al di sotto di una certa soglia. E
mi preoccupa la strutturale propensione dei partiti attuali verso un sistema
elettorale simile a quello delle regionali, che può portarci a riplasmare
addirittura la forma di governo. Il modello regionale è infatti un modello
presidenziale forte. Vorrei umilmente ricordare che uno degli argomenti che
spinsero tanta parte del centrosinistra ad avversare la riforma costituzionale
del Polo fu proprio l’appassionata difesa della forma di governo
parlamentare».

D’accordo, ma oggi tutti
convengono sulla necessità di rafforzare i poteri del
premier.

«Benissimo, io sono tra quelli. La forma di governo
parlamentare non vieta affatto che si possa votare la fiducia solo al premier, o
che il premier possa proporre la nomina e la revoca dei ministri, o che possa
addirittura proporre lo scioglimento delle Camere. Ma non arriva al punto da
prefigurare l’elezione diretta, come avviene nel modello regionale. Questo
sconnette totalmente il capo del governo dal Parlamento, e per me questo è
inaccettabile».

Ministro, lei dice di no,
ma la sua è una bocciatura bella e buona della bozza Chiti. Come fa a
negarlo?

«Io non boccio nulla. Riconosco che quello, oggi, è il minimo
comune denominatore, sul quale si registra il massimo consenso possibile tra i
due schieramenti. Ma aggiungo che si tratta di una bozza preliminare. Non è
detto che si arrivi alle stesse rigidità sul premio di maggioranza e quindi al
bipolarismo coatto di oggi ed è possibile che si contrasti più efficacemente la
frammentazione con clausole di sbarramento. Certo non è il sistema che
preferisco».

Diciamola in un altro modo:
quel compromesso al ribasso è servito solo a tenere buoni i partiti “nanetti”, e
a sventare la minaccia del referendum.

«Di sicuro la minaccia pesa.
Del resto io stesso ho sempre sostenuto l’utilità del referendum come pistola
carica sul tavolo della politica, non come soluzione in sé dei problemi della
politica. E resto convinto che senza quella pistola sul tavolo, nell’Unione non
si sarebbe raggiunta nemmeno un?intesa non entusiasmante, come quella di martedì
scorso. Io non cambio la mia idea: non è la riforma elettorale, ma la politica a
dover ridurre la frammentazione, e tuttavia sarebbe sbagliata una riforma
elettorale che non concorresse a un processo di riaggregazione. Come sarebbe un
errore non accompagnarla con una riforma costituzionale, su pochi punti precisi,
come ad esempio il numero dei parlamentari e i poteri del premier».

Così la Cdl non ci sta. L’obiezione è: volete le
riforme costituzionali solo per far durare il governo. E vero?


«Obiezione respinta. La riforma costituzionale del Polo ha richiesto anni di
lavoro perchè investiva ben 53 articoli della Costituzione. Qui si tratterebbe
di modificarne solo pochissimi punti. Da parte nostra c’è solo buon senso, e
nessuna intenzione dilatoria. Una legge elettorale, del resto, non sta in piedi
da sola, ma investe il funzionamento dello Stato e, come ho detto, chiama in
campo la politica».

In che
senso?

«Per noi la risposta più importante alla frammentazione del
sistema è accelerare davvero sul partito democratico. Vede, in questo ciclo
storico non si sciolgono solo i ghiacciai. Anche il consenso politico è ormai
uno strato sempre più sottile. Può cedere a ogni passo. Di fronte a questa
fragilità del consenso guai alla politica che si ferma e non ha il coraggio di
guardare ai problemi che ha davanti. L’invecchiamento della popolazione, il
clima, la convivenza tra identità diverse, l’immigrazione, la ricchezza e la
povertà che coesistono, in certe nostre città che sembrano la Londra di Oliver
Twist».

Nella gestazione del partito
democratico di tutto si parla, fuorchè di questi problemi.

«E serve
parlarne, invece, per aggregare non solo pezzi di partiti preesistenti, ma
soprattutto pezzi consistenti di un popolo, che va altrimenti in frantumi.
Politica e società possono rimanere vittime della stessa sindrome. Ed è la
politica che ha il compito di ricucire: ricucire la società ricucendo se stessa
attorno alle questioni su cui si ricompongono oggi gli interessi collettivi e il
bene comune».

E invece il progetto non
riscalda i cuori. Si parla di cooptazione tra nomenklature, di scissioni e di
esclusioni.

«Il progetto non riscalda quanto dovrebbe, ma separazioni
e scissioni raffreddano ancora di più. Se il tema è riaggregare, si può pensare
che serva una scissione nei Ds, o che sia utile che i socialisti se ne vadano da
soli? Come si fa a non capire che solo l’idea di una scissione riduce
enormemente l’interesse per quei “grandi problemi” sollevati proprio da Mussi? E
poi chiedo a Boselli: cosa è cambiato rispetto a Fiuggi 2004? Quando proprio lui
disse “l’aspirazione all’unità ha attraversato da sempre la storia del nuovo
socialismo… esiste una medesima sensibilità con Ds e Margherita.. ora si può
pensare a costruire l’unità dei riformisti…”. Cosa è successo, ora, che spinge
Boselli a dimenticare tutto questo?».

Forse lo scontro sui Dico, che ha riaperto la
questione romana, la contesa tra laici e cattolici.

«Certo. Ma esiste
anche un cattolicesimo democratico e liberale che si sente comunque impegnato
dalla laicità dello Stato, e rifiuta l’idea di un diretto trasferimento delle
prescrizioni religiose nelle leggi dello Stato Questo è il terreno
dell’incontro. E invece si chiede l’abolizione di un Concordato che non è quello
degli anni ‘30, ma quello nuovo revisionato da Craxi negli anni
‘80».

Poi per la sinistra resta il
problema dell’affiliazione del futuro partito alle famiglie europee. Come si fa
a stare fuori dal Pse, come pretende la Margherita?

«E’ noto fin
dall’inizio che il tema si affronterà alla fine del percorso. I problemi del
dopo si affrontano dopo. E comunque, ammettendo che il partito democratico sia
alleato del Pse, e che il partito socialista europeo rimanga tale anche in
futuro, difficilmente un partito socialista italiano al 2% sarà per il Pse più
rilevante di un partito democratico al 20-30%. E poi, via, oggi non c’è più il
problema, che esisteva a sinistra negli anni ‘80, di un partito “egemone” che ne
fagocita un altro».

C’è però chi lamenta
la scarsa presenza di una cultura liberalsocialista nel Pd, e lo considera un
“piccolo compromesso storico tra post”. Lei che risponde?

«Rispondo
che è un’osservazione giusta. Ma non la può fare chi, essendo portatore proprio
di quella cultura, decide di restare fuori dal Pd. E aggiungo che il futuro
partito sarebbe un “piccolo compromesso storico tra post” se fosse un circolo
chiuso, che sbarrasse la porta ad altri. Ma i due partiti fondatori non possono
smentire l’impegno, ormai preso, di aprire dopo i loro congressi una fase
costituente, aperta a tutti coloro che vorranno sottoscrivere il Manifesto del
futuro partito. Gli altri partiti, le organizzazioni della società civile, e
l’insieme del popolo delle primarie avranno così l’occasione e il modo di
pesare».

Se la fusione è fredda, come
lamenta Veltroni, quel popolo non si sente, dentro il Pd.

«E invece
noi non possiamo e non dobbiamo deludere quel popolo. Il partito democratico è
anche un grande investimento sul futuro e sulle nuove generazioni. Io i giovani
li frequento, e le assicuro che non si sentono vincolati dalle nostre antiche
“differenze identitarie”. É il momento di superare quelle differenze. Chi si
rifiuterà di farlo, rinunciando alla costruzione del partito dei riformisti, si
assumerà una responsabilità enorme. Ricordiamoci la parabola della moglie di
Lot, che dopo l’incendio resta immobile a guardarsi indietro, e si trasforma in
una statua di sale. Non trasformiamo il centrosinistra in una coorte di mogli di
Lot. I giovani non ce lo perdonerebbero».