Talvolta la vicenda di un uomo, anche se si
conclude con una tragedia anticipata, con il corpo che tradisce la mente,
riesce a essere esemplare. Non ideologica, perché Nino Andreatta rifuggiva
dall’ideologia: ma sta di fatto che il suo tragitto intellettuale, prima di
spezzarsi nell’aula della Camera il 15 dicembre 1999, sembra riassumere in
sé un intero sviluppo politico.
Era anticomunista nelle fibre più
profonde di sé; democristiano con un disprezzo esibito delle pratiche di
partito e nello stesso tempo con un orgoglio e uno spirito di appartenenza
che lo inducevano a immaginare ancora soluzioni politiche, durante il
disfacimento del suo partito, a oltranza, senza tregua e senza rassegnarsi,
come se un’ossessione potesse placare una disperazione; e infine convinto
che per una riflessione politica rigorosa, oltre che per una scelta etica
irresistibile nella sua eleganza, i cattolici dovessero imboccare la via
collocata a sinistra nel nascente e già problematico bipolarismo
italiano.
Adesso una formula sbrigativa potrebbe illustrarlo come il vero
padre del Partito democratico. Non significherebbe nulla se non si avesse in
mente la volontà feroce con cui aveva cercato di opporsi al tramonto della
Dc e dei Popolari, il sostegno scettico a Mino Martinazzoli, l’impegno da
naufraghi nel Patto per l’Italia con Mario Segni. Soltanto dopo che la
navicella dei centristi si era arenata, con i suoi sei milioni di voti,
sull’ultima spiaggia alle elezioni del 1994, aveva compiuto la sua scelta.
Uno scarto da purosangue, per lui che si era perfino candidato a sindaco di
Bologna, pur di scalfire il potere comunista. Prima aveva negato la fiducia
al governo di Silvio Berlusconi: «Verso questa destra ho una pregiudiziale
morale»; e subito dopo si era gettato nello sforzo di evitare la «deriva
plebiscitaria», il «bonapartismo», quell’ondata che stava risucchiando a
destra i Popolari sotto la segreteria di Buttiglione.
Come cattolico
poteva sfiorare venature anticlericali, se si trattava di interpretare la
laicità come un criterio che non venisse a patti con i traffici dello Ior.
Come democristiano era in grado di sfoggiare pensieri giacobini, taglienti,
irriducibili alle convenienze clientelari o a complicità da sottogoverno.
Come uomo politico tout court, si dedicò al pensiero infinito di come
riorganizzare l’alternativa a una «destra gaglioffa». Con quella stessa
verve polemica che aveva praticato a usura contro il Psi di Craxi, contro
«il commercialista di Bari», contro il «nazional-socialismo», Andreatta si
dedicò alla ricerca di una leadership per il centrosinistra futuro, dopo il
luttuoso fallimento della «gioiosa macchina da guerra» nel 94. La trovò in
Romano Prodi, attirato verso la politica con l?ironia socratica del maestro
ancora in grado di condizionare l’allievo.
Ma si sbaglierebbe a pensare
che l’amichevole intrigo di Andreatta avesse come traguardo una soluzione
politica modesta, un accordo minore, un compromesso mediocre. Nella
primavera del 1996, a un convegno a Bologna, mentre incombevano le elezioni
politiche e il neoliberista Berlusconi prometteva di tagliare il peso
fiscale, Andreatta fece sfoggio della sua migliore sfrontatezza sostenendo
che occorreva anzi aumentarle, le tasse. Perché non accettava il liberismo
dei provinciali. Aveva individuato la tendenza ancora prima del 1989 e del
crollo del Muro, allorché aveva intuito che il destino del mondo senza più
barriere e blocchi geopolitici era davvero in quella parola che si
cominciava a usare, la «globalizzazione». Di qui il suo scetticismo verso
gli europeismi retorici, nonché verso la piccola Europa bruxellese, e invece
la concezione di un continente largo e aperto, capace di muoversi
liberamente dentro i grandi flussi del pianeta.
Si esprimeva qui il suo
singolare keynesismo, un’inclinazione sociale fatta di doveri prima che di
diritti, ma in cui il primo dovere era l’accettazione integrale del mercato
e dei processi competitivi. E che quindi lo portava a considerare una
fastidiosa stravaganza della storia la conquista del potere da parte di un
monopolista come Silvio Berlusconi: «Lei chiede per sé la fiducia che si
concede al cittadino comune», aveva detto il 20 maggio 1994 durante il
dibattito in aula; «ma lei non è un cittadino comune, è il proprietario di
una colossale concentrazione di mezzi d?informazione e di interessi
economici. «Aveva scelto la sinistra immaginandone un destino americano,
con l’idea che le grandi convenzioni di partito e le primarie potessero
restituire alla politica quella concorrenza interna che anni di
«consociazionismo» (non avrebbe mai ceduto a una ovvietà propagandistica e
di destra come «consociativismo»). Convinto che una traccia della Dc di De
Gasperi, cattolica, liberale e soprattutto sobria, dovesse essere l’eredità
degli ultimi profughi della sinistra democristiana. E che una scia della
moralità comunista potesse indurre tutta la sinistra, a fare i conti con la
sfida, così difficile, dell’uguaglianza in una società diseguale. In quegli
anni, parlare del Partito democratico era una fantasia intellettuale. Forse,
il pregio maggiore di Andreatta è consistito nel pensare che nulla fosse
reale come la fantasia.