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17 Novembre 2008

Abu Ghraib a Genova

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001
a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il
processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si
sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito
normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e
alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse
destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è
stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole
per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non
controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il
fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel
proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu
dell’84, non cambia la sostanza del delitto.

Nessuno nega ormai che
a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati,
minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la
mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto
avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono
costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate,
braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero
mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze
dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.

Queste
cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come – poco dopo – a
Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una
zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere»,
è già accaduto.
Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una
volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per
così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si
rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a
Abu Ghraib, a Guantanamo.

I massimi responsabili non hanno pagato,
perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un
«grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene
di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre
responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti,
senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è
occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La
guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito
nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi – con Berlusconi
– promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del
Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo
silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra.
Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile
precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la
polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano
l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia
al vertice del G8 di Genova.

Il questore Vincenzo Canterini ha
scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare
consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante
del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di
reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando
che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale
missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier,
anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria
messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono
colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo
tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni,
diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla
lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita.

Visto
che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece
storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe
che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di
Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo:
oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe
finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o
italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde
e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro
dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista
di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che
insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze
dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che
nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria)
prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.

È
una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle
università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere
il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della
violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente
su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo
qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra
reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata
dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono
inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se
stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione
poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e
quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati.
(…) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che
viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine
di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti».
Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa
avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla
polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato:
«Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio,
coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche
quando non lo diranno».

Esiste dunque la possibilità di servire lo
Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud
conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare
nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di
servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di
Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli
difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il
diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati
(censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.

Quando
cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma
che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu
Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è
turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta
nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a
Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce»
di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare
le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico
Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio
Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto
l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove.
Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per
cominciare a far bene le cose.