Che la Somalia fosse destinata a diventare il
terzo fronte della “guerra al terrore” era prevedibile. I bombardamenti
americani nel sud del tormentato paese, sono il logico corollario della
strategia che ha condotto Washington a dare luce verde alle truppe
etiopi intervenute a sostegno del debole governo di transizione di
Baidoa; a far incrociare la portaerei Eisenhower nelle calde acque del
Corno d´Africax; a rafforzare la Task Force che ha come teatro d´azione
un continente ritenuto sempre più importante strategicamente. Tanto che
gli Usa, nel profondo sommovimento innescato dal fallimento della
campagna irachena che investe comandi e vertici militari, si apprestano
a varare Africom.
Un comando apposito per l´Africa, sin qui
scenario di competenza di tre diversi settori militari: quello Europeo,
quello Pacifico, quello Centrale. Tra i suoi compiti, Africom avrà
l´addestramento delle truppe di paesi alleati e, soprattutto, il
contrasto alla minaccia jihadista. La Somalia è il primo banco di prova
di questo approccio, ancora una volta unilaterale. Paese senza stato, è
da tempo base operativa di un nucleo jihadista. Cresciuto non solo per
l´assenza di strutture di sicurezza o per la lunga frequentazione della
leadership qaedista del paese; ma per la stessa forza acquisita dagli
Shahab, i giovani “talebani” cresciuti come i loro coetanei afgani,
nelle scuole coraniche finanziate generosamente da circoli e fondazioni
wahhabite. Scuole che hanno come obiettivo la diffusione in versione
radicale del loro rigido islam, in cui lo jihadismo trova un sostrato,
religioso e politico, per prosperare. Un motivo sufficiente a
Washington per intervenire.
Del resto secondo la mai rinnegata
dottrina strategica del 2002, la Somalia è un failed state e gli stati
falliti non esercitano sovranità: sono “terra di nessuno” sino al
momento in cui non si rifondano le istituzioni. La stessa motivazione
con cui il premier etiope Zenawi ha giustificato l´intervento di Adis
Abeba, “la minaccia islamica alla sicurezza del suo paese”, lascia
intuire chiaramente il retroterra ideologico della nuova strategia
africana di Washington, che mira sempre più a mettere in primo piano la
costruzione dello stato, anziché della democrazia. Una distinzione su
cui si attesta, dopo il disastro iracheno, anche parte del frantumato
schieramento neocon.
Posizioni che permettono a Bush di recuperare
gli esponenti di quella corrente che condividono gli obiettivi dei
“realisti muscolari” che ruotano attorno a Cheney, mettendo ancora una
volta all´angolo il Dipartimento di Stato, ormai “commissariato” da
Negroponte. Difficile, del resto, parlare di democrazia non solo a
proposito di Somalia, luogo del trionfo dei particolarismi etnici e
tribali che non tollerano astratte regole del gioco istituzionali o
universalismi da esportare; ma anche dell´Etiopia guidata dal 1991 da
Zenawi.
In questo crepuscolare, ma non meno drammatico, clima di
fine mandato, illuminato, illusoriamente, dai bagliori delle armi,
l´accento della seconda amministrazione Bush è posto sempre più sulla
dimensione distruttiva della “guerra al terrore”. Quella che ha come
obiettivo il Nemico, più che la diffusione del diritto o della
democrazia. La prospettiva di eliminare membri di Al Qaeda accusati di
essere coinvolti in attentati in cui sono morti americani, ha indotto
Bush a superare la sindrome da “Black Hawk Down”.
Il presidente
non ama troppo le eredità dei suoi predecessori, come si è visto nel
caso iracheno: diciotto anni dopo, la tragica esperienza del 1993,
finita con la perdita di 18 militari e il successivo “ripiegamento”
ordinato da Clinton, la Somalia è tornata così campo d´azione a stelle
e strisce. Una scelta che Al Qaeda, intervenuta recentemente sul tema
con Zawahiri, leggerà come conferma della necessità di proseguire la
“jihad contro i cristiani”, copti etiopi e crociati americani insieme,
nel Corno d´Africa. Se confermata, l´eliminazione nei raid somali, di
Fazul Abdallah Muhhamad, accusato di aver organizzato gli attentati
contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania del 1998, è un colpo che
la Casa Bianca metterà sicuramente all´incasso davanti a una nazione
ormai disillusa sull´esito delle partite irachena e afgana della
campagna contro Al Qaeda. Anche se i raid hanno lasciato sul campo
molte vittime “collaterali”. Vittime ritenute, di fatto, “costo da
sostenere” anche dal debole presidente somalo Abdullahi Yusuf, secondo
il quale gli Stati Uniti hanno fatto la cosa giusta lanciando gli
attacchi aerei nel suo paese.
Una puntualizzazione dovuta per un
leader che, senza l´aiuto di Washington, sarebbe ancora trincerato nel
ridotto di Baidoa; ma che non aiuta a legittimare il nuovo governo.
L´intervento americano rischia, infatti, di produrre nuova instabilità,
come ha rilevato l´Unione Europea e lo stesso segretario dell´Onu
Ban-Ki Moon il cui esordio non è stato certo facilitato dalle scelte di
Washington, suo grande sponsor nella successione a Annan. A muovere gli
americani è anche la consapevolezza che le truppe etiopi non possono
restare a lungo in Somalia, come ammette lo stesso Zenawi, annunciando
la conclusione della spedizione militare di Adis Abeba.
Le
manifestazioni contro la presenza etiope, conclusesi nel sangue nei
giorni scorsi, sono un segnale che non può essere ignorato. Rivalità, e
ferite, storiche e religiose, non consentono lunghe permanenze: il già
debole governo transitorio ne risentirebbe. Washington, che presentando
i raid come operazioni di “polizia internazionale” e non come
“operazioni militari, vuole evitare di dispiegare truppe sul terreno e
chiede l´intervento di una forza internazionale. Ma, come già nel caso
libanese, vuole che i caschi blu siano dispiegati dopo aver messo fuori
gioco gli islamisti, altrimenti destinati a radicarsi nei paesi
limitrofi. L´Africa orientale è, più che mai, teatro della “guerra al
terrore”.