“La sfida per l’Italia è la crescita. Ma non c’è crescita senza rigore
finanziario. E l’Italia non crescerà in modo sostenibile e duraturo
finché il debito pubblico resterà a livelli così alti”. Nel fiume in
piena delle polemiche politiche sulla Finanziaria, sulle pensioni e
sulle liberalizzazioni, Lorenzo Bini Smaghi lancia il suo “warning”
all’Italia e al governo Prodi. “Assicurato l’equilibrio di bilancio, le
riforme sono l’unico modo per far ripartire la crescita”, dice l’uomo
che rappresenta il nostro Paese nel “board” della Banca centrale
europea. E dal suo ufficio al 34esimo piano dell’Eurotower di
Francoforte, dove ha appena accolto in visita la cancelliera tedesca
Angela Merkel, Bini Smaghi aggiunge: “Il governo deve accelerare sulle
liberalizzazioni. Ed è sempre più urgente la riforma della previdenza,
a partire dall’innalzamento dell’età pensionabile. In caso contrario,
chi vuole difendere lo status quo ha il dovere di dirlo chiaro:
vogliamo che le nostre pensioni, che ci goderemo più a lungo, siano
pagate dai giovani”.
Dottor Bini Smaghi, partiamo dall’Europa. Che prospettive di crescita vede per il 2007?
“I dati recenti sembrano confermare che la crescita europea rimarrà
robusta, anche nel 2007. La ripresa si consolida, anche grazie ai
miglioramenti registrati dall’occupazione, che sostiene la domanda
interna. Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro è sceso sotto
il livello minimo raggiunto in occasione della precedente fase ciclica.
Questo mostra che le riforme del mercato del lavoro cominciano a dare i
loro frutti”.
Voi
che farete, a questo punto? Vede tensioni inflazionistiche, nonostante
il calo dei prezzi del petrolio? Prevede ulteriori giri di vite sui
tassi di interesse?
“La Bce ha cominciato ad aumentare i tassi, dai livelli minimi, da poco
più di un anno, da quando emergevano segni di ripresa economica. Chi
allora criticò la Bce (comprese alcune istituzioni internazionali)
sostenendo che la ripresa non c’era e che l’aumento dei tassi l’avrebbe
frenata, ora riconosce che abbiamo fatto la cosa giusta. La nostra
strategia non è cambiata. Consiste nel contrastare le pressioni
inflazionistiche, prima che queste si manifestano. Questo richiede che
i tassi d’interesse vengano adeguati al ritmo di crescita
dell’economia. E’ vero che il calo del prezzo del petrolio riduce
l’inflazione nel breve periodo, ma contribuisce anche a sostenere la
domanda interna e il ritmo di crescita potenziale dell’economia
europea”.
E quindi?
“Quindi, guardando al ritmo di crescita dell’economia che ha superato
il 2% in termini reali, e al tasso d’inflazione intorno al 2%, un tasso
d’interesse al 3,5% è ancora accomodante”.
Fuori dal gergo del banchiere centrale, “accomodante” significa che andiamo verso un nuovo rialzo dei tassi, giusto?
“Posso dirle questo: se lo scenario di crescita si conferma, non
adeguare i tassi di interesse vuol dire alimentare un aumento eccessivo
della liquidità”.
Chiarissimo. Cosi darete ragione a quei governi di Eurolandia che vi accusano di una politica monetaria troppo restrittiva.
“Le lamentele sono limitate, e il rumore viene in gran parte dalla
campagna elettorale francese. Io vedo invece che c’è un crescente
consenso sul fatto che in questi anni la Bce abbia fatto un buon
lavoro. L’opinione pubblica vuole inflazione bassa. Nei primi 8 anni
dell’unione monetaria, l’inflazione è stata in media del 2,05%
all’anno, un risultato che mi sembra ottimo, se raffrontato al passato
o ad altri paesi che non hanno l’euro. Si poteva forse fare un po’
meglio, ma non dimentichiamo l’aumento del prezzo del petrolio e altri
shock che si sono avuti in questi anni”.
Eppure i governi si lamentano.
“Ai governi che si lamentano rispondo che la Bce con la sua politica
monetaria ha aiutato in modo notevole a sostenere la crescita,
soprattutto nella fase in cui i tassi erano al 2%. La politica fiscale
ha fatto esattamente il contrario: è stata espansiva nei due anni di
crescita più sostenuta, e restrittiva nella fase di crescita più
debole”.
Passiamo
all’Italia. Sulla Finanziaria il primo giudizio della Bce non è stato
positivo. Oggi che i saldi di bilancio sono in chiaro miglioramento
avete cambiato opinione? Si possono davvero ricominciare ad allentare i
cordoni della borsa, come sostiene qualche esponente della sinistra,
che vuole spendere in fretta il “bonus” delle maggiori entrate fiscali?
“Una cosa va
detta con chiarezza: l’Italia non crescerà in modo sostenibile e
duraturo fin quando il debito rimane così alto. Per ridurre il debito
rapidamente non basta avere un disavanzo appena sotto il 3% del Pil.
Bisogna puntare all’equilibrio di bilancio. Così hanno fatto altri
paesi, come il Belgio o l’Irlanda, che avevano un debito più alto del
nostro, l’hanno ridotto rapidamente e hanno ripreso a crescere. Per
questo non è serio parlare di bonus delle maggiori entrate da
ridistribuire. Non si sa nemmeno se questo bonus è di natura permanente
o legato al ciclo. Si rischia di ricommettere lo stesso errore del
2000, quando il miglioramento del disavanzo indusse il governo a
ridurre le imposte, col che il disavanzo aumentò ai primi segnali di
rallentamento ciclico, creando nuove ansie di risanamento. Il governo
italiano deve consolidare i risultati raggiunti e rassicurare i
cittadini sul fatto che il problema della finanza pubblica è in via di
risoluzione. Ridare la fiducia ha molto più impatto sulla crescita,
rispetto a qualche sgravio fiscale non sostenibile nel tempo”.
Si
è aperto un grande dibattito sulle riforme, dalle liberalizzazioni alla
previdenza. Lei che ne pensa? Solo chiacchiere, o si approderà a
qualcosa di concreto?
“E’ un aspetto molto positivo che in Italia si discuta apertamente di
riforme. In effetti queste sono l’unico modo per far ripartire la
crescita, dati i lacci e lacciuoli della nostra economia, rispetto alle
altre. Dopo i successi delle riforme sul mercato del lavoro, bisogna
ora liberalizzare i mercati dei prodotti, mettendo al centro i
consumatori, soprattutto quelli meno abbienti, i cui salari sono
rimasti compressi. Per competere a livello internazionale i salari non
possono aumentare più della produttività. Allora, per recuperare potere
d’acquisto, bisogna intervenire con l’obiettivo di ridurre i prezzi per
il consumatore, creando più concorrenza, ad esempio nel settore
dell’energia e dei servizi alla distribuzione e quelli locali”.
Quindi fa bene Bersani a insistere sulla sua lenzuolata di liberalizzazioni?
“Assolutamente sì. La strada intrapresa è quella giusta. L’importante è
non fermarsi di fronte alle prime difficoltà politiche, o alle prime
resistenze corporative”.
Il punto più dolente riguarda le pensioni. Nel governo c’è chi dice che tutto va bene così. Lei come la vede?
“Bisogna che le varie parti spieghino in modo chiaro, sulla base di
dati oggettivi e ufficiali, come intendono coprire i costi che derivano
da un fatto oggettivo e incontrovertibile: l’allungamento della vita
aumenta gli esborsi pensionistici. In sintesi, politici e sindacalisti
devono spiegare: chi paga? Ma quello che gli italiani devono sapere, e
che se non si cambia niente, pagheranno i contribuenti, con tasse più
alte. Nel giro dei prossimi 15-20 anni le entrate dovrebbero aumentare
di circa 1 punto di Pil, come minimo, perché le aspettative di vita
vengono continuamente riviste al rialzo. Dalle recenti reazioni alla
Finanziaria non mi sembra che gli italiani vogliano pagare più tasse.
Per altro, saranno soprattutto i giovani, inclusi quelli che ancora non
sono entrati sul mercato del lavoro, che dovranno subire tasse più
alte”.
E allora come se ne esce?
“Lo dicano chiaramente, quelli che puntano a difendere lo status quo:
“vogliamo che le nostre pensioni, che ci goderemo più a lungo, siano
pagate dai giovani”. Ma chi difende questi privilegi non può poi
lamentarsi se i giovani non trovano lavoro o se il lavoro è precario.
E’ ovvio che con tasse e contributi più alti il lavoro giovanile viene
penalizzato. Mi chiedo: ma chi difende i giovani, in Italia? Possibile
che il sindacato non si ponga questa domanda?”.
Eppure, anche tra i ministri più riformisti come Damiano, cresce la tendenza a dire “l’età pensionabile non si tocca”.
“A mio avviso è un errore. Anche altri Paesi devono completare la
riforma previdenziale. Ma in Germania si va in pensione a 67 anni, in
Svezia a 65. L’Italia può davvero permettersi il lusso di mandare la
gente in pensione a 57 anni? Le aggiungo che in nessun Paese esiste il
concetto di “lavoro usurante”, mentre da noi ho sentito qualcuno che
considera tale perfino il lavoro di una maestra d’asilo. Se proprio lo
si vuole introdurre, va legato a dati certi sulle aspettative di vita
delle varie categorie professionali”.
Un’altra sfida decisiva per l’Italia riguarda la competitività e la produttività del sistema, privato e soprattutto pubblico.
“In un’economia globale, per essere competitivi, bisogna evitare che i
propri costi aumentino più di quelli dei concorrenti. Non parlo della
Cina o dei paesi emergenti, ma della Germania, Francia, Regno Unito o
Svezia. Negli ultimi anni l’Italia ha perso competitività nei confronti
di questi paesi, perché le remunerazioni sono cresciute più della
produttività. La sfida per l’Italia è di aumentare la produttività, e
questo è soprattutto un impegno per le aziende”.
Appunto.
E non le sembra che le aziende italiane, in questi anni, abbiano dato
risposte insoddisfacenti, con poca innovazione e pochi investimenti?
“Per lungo tempo si sono mantenute posizioni in settori produttivi
chiaramente declinanti. Questo e stato effettivamente un errore.
Nell’ultimo anno, invece, molte aziende hanno avviato ristrutturazioni
importanti. Ora bisogna aiutarle a crescere. Riduzione del cuneo
fiscale e crediti d’imposta funzionano, ma a condizione che vi sia
rigore sul costo del lavoro. Se la riduzione di 3 punti di cuneo se ne
va in aumenti salariali non in linea con la produttività, anche questo
incentivo diventa una forma surrettizia di svalutazione competitiva, il
cui effetto e destinato a svanire in breve tempo. E’ un errore che
l’Italia non deve mai più ripetere”.