UN BACCHETTONE Sadico. Complessato e con un forte senso d´inferiorità. Scelto da una vecchia setta. Il leader della tristezza. Con un faccione al semolino e la parlata sedativa Romano Prodi cominciò subito a innervosire i polemisti del centrodestra. Per subito intendo sin dal febbraio 1995, giusto dieci anni fa, al momento della sua discesa in pista. Leggevo sorridendo certi corsivi stralunati. Soprattutto quelli che davano per certa la sconfitta del Bacchettone Sadico.
Come sosteneva Luigi De Marchi, capace di prevedere all´istante che Prodi avrebbe condotto il “Polo statalista” a “una batosta anche più devastante di quella del 27 marzo 1994”, data del trionfo di Silvio Berlusconi.
La profezia di De Marchi comparve sull´Opinione, quotidiano di Roma, la domenica 5 febbraio, tre giorni dopo l´annuncio che il Cavaliere avrebbe avuto un nuovo competitore. Non sul momento, poiché non c´erano elezioni alle viste. Il primo governo Berlusconi era caduto alla fine del 1994, per il ribaltone deciso dalla ditta Bossi & Buttiglione. A Palazzo Chigi stava Lamberto Dini. Quanto sarebbe durato Le urne erano vicine o lontane E il centro-sinistra avrebbe saputo evitare il disastro della “gioiosa macchina da guerra” capeggiata da Achille Occhetto
Fu in quel frangente che gli elettori contrari a Sua Emittenza si videro proporre un leader diverso: per l´appunto Prodi, ovvero il Prof, anni 55, nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, due volte presidente dell´Iri, cattolico e dicì. Me lo ricordo bene il Prof di quel tempo. Con una mascagna di capelli neri. Il volto pacioso del vecchio boy-scout. Lo stile bonario, però capace d´infilzarti con una battuta al vetriolo, condita da una risata cordialona. Il fisico asciutto, da ciclista su lunghe distanze. Un tenace, un cocciuto e, talvolta, un collerico se alle prese con un ostacolo malevolo od oscuro. Infine, un uomo non manovrato da nessuno: preti, poteri forti, lobby editoriali, partiti visibili o invisibili.
L´avvento del Prof venne annunciato il giovedì 2 febbraio dai suoi amici della sinistra del Partito popolare. Al termine di un´ultima riunione a Montecitorio, nell´ufficio del capogruppo Nino Andreatta. C´erano Nicola Mancino, capo dei senatori, Giovanni Bianchi, il presidente del Ppi, Leopoldo Elia e Sergio Mattarella. Mancava il segretario del partito, Rocco Buttiglione, di nuovo in viaggio verso il pianeta del Berlusca. Lì per lì, Prodi non volle dire nulla. Si limitò ad andare da Oscar Luigi Scalfaro, al Quirinale. E quando ci fu bagarre per quella visita, si barricò sostenendo d´aver visto zio Oscar soltanto per parlare del prossimo viaggio presidenziale in India.
L´India Ma non scherziamo! Il Prof era salito al Colle per sciogliere ogni riserva. E difatti cominciarono a fioccare le reazioni. Fausto Bertinotti disse subito che, per la guida del centro-sinistra, lui avrebbe preferito il sindacalista Pierre Carniti: “Prodi è tanto moderato!”. Il subalpino Diego Novelli borbottò: “Non credo ai miracoli né ai santi”. Nel Pds prevalse la cautela, con poche eccezioni. Cesare Salvi, capo dei senatori, non ebbe dubbi: “Prodi è una personalità di prim´ordine. Aiuterà l´alternativa alla destra”. Entusiasta fu il presidente dei deputati, Luigi Berlinguer: “Viva Prodi! Sarà un buon leader. Con lui il polo democratico è già fatto!”.
Il venerdì 3 febbraio, Prodi rese ufficiale la decisione di candidarsi alla guida di un governo progressista. Promise: “Farò una gara politica serena, serena, lo ripeto ancora: serena!”. Poi sostenne che si poteva votare subito, in giugno. Massimo D´Alema, segretario del Pds, storse la bocca: “La candidatura di Prodi è emersa in anticipo, ma sarebbe sbagliato trarne la conclusione che anche la sinistra vorrebbe il voto a giugno”. Intervistato dalla Stampa, Norberto Bobbio diede ragione al Prof: “Non sono d´accordo con D´Alema. Bisogna affrettarsi. Non c´è un minuto da perdere”.
Prodi era gasatissimo. Domenica 5 febbraio rivelò: “Walter Veltroni sarà con me. E ho pensato anche ad Antonio Di Pietro: gli ho già parlato”. Il giorno successivo andò in tivù, al Fatto di Enzo Biagi. La sua prima risposta fu: “Sono entrato in politica perché c´era cattiveria e tensione. Vedo la necessità di rappresentare buoni sentimenti”. La stessa sera, a Bologna, spiegò ai cronisti che l´assediavano: “Sarà una competizione dolce. I nomi della mia squadra Non ha senso fare una squadra prima del programma. La gente deve avere di fronte a sé le idee, i programmi e le persone che li portano avanti”.
Tutto facile Per niente. Il 13 febbraio, a Bologna, Prodi parlò per la prima volta dell´Ulivo come del simbolo giusto per il suo progetto: “Accanto alla Quercia, è necessario piantare questo albero con radici profonde, resistente, che dà molti frutti, presente al nord come al sud: è il simbolo dell´Italia”. Ma proprio dal suo Ulivo iniziarono a venirgli frecce pericolose. La più insidiosa diceva: “Prodi è l´uomo giusto, però soltanto per il voto a giugno”. E così il Prof decise di mutare strategia. Il 9 marzo ammise: “Ho bisogno di tempo. Meglio se passa l´estate. Ho appena cominciato con gli italiani un discorso di convincimento”.
Ventiquattro ore dopo, a Roma, nella Sala Umberto, un cinema del centro, Prodi andò al primo incontro pubblico con i vertici progressisti. Tanta gente entusiasta. Pochi parlamentari. Discorsi rituali. E un´arietta stizzosa. Da nomenklatura che avvertiva il Prof: non credere di fare di testa tua, noi ne sappiamo più di te! Ma poi accaddero due cose buone. Il vecchio Vittorio Foa, seduto tra il pubblico, diede un consiglio a Prodi: “Resta fuori e al di sopra delle appartenenze di partito. Solo in questo modo puoi parlare ai cittadini. La linea delle vecchie sigle, politicamente esauste, è rovinosa”.
Quindi comparve D´Alema. Senza salire sul palco, disse al Prof: “Lei è il leader. Le conferiamo la nostra forza. Un terzo dei voti italiani. E 700 mila donne e uomini della Quercia”. Prodi accettò, dichiarandosi “commosso”. Poi si finse sorpreso: “Non me l´aspettavo. Credevo fosse un dibattito. Invece è un´investitura”.
C´ero anch´io alla Sala Umberto. E per quel che ricordo, il Prof sorrideva sornione.
Forse pensava all´avvertimento ricevuto poco prima dal verde Gianni Mattioli: “Professore, non dia per scontato il consenso ambientalista”. Qualche giorno dopo, Gianfranco Fini commentò, sprezzante: “D´Alema ha messo sul trono il suo vassallo”. Prodi gli replicò: “No, D´Alema ha incoronato un imperatore”.
Il lunedì successivo, 13 marzo, il Prof cominciò da Tricase, in provincia di Lecce, il viaggio in Italia sul pullman dell´Ulivo. Gli avversari lo dileggiavano come abbiamo visto. Gli alleati lo guatavano da lontano, scettici o ironici. Ma Prodi parlava con la gente. E il l° aprile, sull´”Unità”, scrisse quel che stava ascoltando: la gente è stufa, esprime “una fortissima e quasi esasperata domanda di rinnovamento della classe dirigente”, e pretende “volti nuovi e giovani”.
I notabili del Pds s´incavolarono: “Bisogna far sapere a Prodi che queste sortite non ci piacciono”. Giorgio Napolitano spiegò: “Non credo che quella dei volti nuovi sia la questione fondamentale”. Un vespaio rognoso. Dal quale partì il primo, vero siluro al Prof. Pensate un po´: la richiesta di primarie. Ne parlò, all´inizio di aprile, Veltroni. Disse: “Vorrei che quella di Prodi fosse l´ultima leadership nata e decisa così. La prossima volta bisognerà ricorrere alle primarie”.
Lo seguì a ruota il portavoce dei Verdi, Carlo Ripa di Meana. Da vero amico del giaguaro, con un´intervista dopo l´altra, sentenziò che, siccome le elezioni non erano alle viste, Prodi poteva pure tornarsene a Bologna. Era un candidato “piovuto dal cielo”. Accettarlo “in silenzio” significava “essere dei soldatini di D´Alema”. Meglio “un quarantenne fra Rutelli e il francese Delors”. I nomi potevano essere tanti: Stefano Rodotà, un po´ di ambientalisti, gli imprenditori Alfio Marchini e Aldo Fumagalli. Gli replicò Massimo Cacciari: “Stupidaggini, interventi suicidi”.
La vittoria di aprile nelle regionali (9 su 15 al centro-sinistra) gettò un po´ d´acqua sul fuoco. Ma il destino di Prodi non cambiò molto. Il Prof continuò a fare la vita del cane in chiesa, preso a calci anche dai suoi. Però non perse l´ottimismo, la pazienza e il buonumore. A fine giugno, riuscì persino a uscire vivo dal primo confronto sul programma dell´Ulivo: dodici gruppi politici, ore di dibattito, quarantatre interventi gonfi di lamentele, veti, protagonismi feroci, accessi di rabbia.
Chi voleva capirlo, lo capì: se riusciva a farcela contro la nomenklatura dell´Ulivo, il Prof avrebbe battuto pure l´imbattibile Berlusconi. Ma questa è una storia da raccontare un´altra volta. Gloriosa, tragica e anche grottesca. Come si comprese un giorno dell´ottobre 1995. Quando Ciriaco De Mita, bello come il sole, se ne uscì con la seguente pensata: “Gli enologi mi hanno spiegato che era meglio la vite della pianta secolare scelta da Prodi. La vite ha tanta vitalità, mentre l´ulivo”.