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15 Febbraio 2005

Dall´utopia alla tragedia Potop, i primi della classe

Autore: Filippo Ceccarelli
Fonte: la Repubblica

ROMA – Potòp, potòp: e già quel suono, quella sigla, evocavano nei dirigenti un che di ribaldo, la fretta altezzosa di chi aveva dalla sua troppa ragione, troppe cose importanti per fermarsi a riflettere sulle loro stesse tragiche contraddizioni. La mistica della classe operaia e il vizietto del poker, l´utopia egualitaria e la deriva violenta, le cambiali da pagare e i servizi di cristallo.
Foto di gruppo: che personaggi! Toni Negri, illustre accademico detto «la iena ridens» per la sua risatina stridula, il potere gelido della Teoria, autore di best seller presentati da Cossiga. Poi Franco Piperno, fascinoso, occhi verdi ciuffo nero e doberman al seguito, da qualche anno assessore a Cosenza. E ancora Oreste Scalzone, leader scalcagnatissimo, «alcolista della lotta di classe» che nell´esilio di Parigi ha inguaiato De Michelis e imparato pure a suonare la fisarmonica. Fino a Valerio Morucci, «l´armatore», nel senso delle armi. Uno che nel suo primo libro di memorie, «Ritratto di un terrorista da giovane» (Piemme, 1999) racconta dei soldi che gli diede Feltrinelli per comprare delle automobili, ma poi l´editore salta su un traliccio e a Morucci, per diversificare l´investimento, viene in testa di comprarsi un orologio: «In Svizzera ne trovai due che mi piacevano e facevo avanti e indietro tra i due negozi attraversando la strada senza decidere. Uno era un Rolex GTM Master, l´altro un Baume & Mercier d´oro, tondo con il quadrante zigrinato…». Passa qualche anno ed eccotelo a via Fani.
E quanti altri personaggi, da Bifo a Mario Dalmaviva, da Sergio Bologna a Pancho Pardi passando per Lanfranco Pace, Luciano Ferrari Bravo, Franco Piro. Tutti sempre un po´ primi della classe: e quindi per questo ad ogni libertà votati e insieme condannati, e ad ogni anche improvvida iniziativa, purché elitaria. «Per entrare in Potop -scriveva ancora nel 1998 Toni Negri -occorreva passare degli esami, informali ma non meno rigidi, e la materia non era dogmatica ma di metodo. V´era una soglia comune che doveva esser raggiunta, molto alta dal punto di vista della teoria e della militanza. Poi, una volta entrato, ognuno faceva quel che voleva in maniera assai gioiosa. Una specie di massoneria mozartiana, questo era Potop».
Con tali premesse era difficile, davvero, fidarsi. Così come è inevitabile ritornare a Potop dopo il riaffiorare del dramma del rogo. Rivoluzionari estetizzanti, si svegliavano tardi e agli appuntamenti arrivavano in ritardo. Con la stessa passione bluffavano e si facevano le inchieste interne, poi, abbastanza presto, cominciarono a credere troppo ai loro discorsi. Un senso di distacco, quasi di fastidio, si avverte ancora a distanza di tanti anni leggendo il bel libro che a Potere Operaio ha dedicato Aldo Grandi, «La generazione degli anni perduti» (Einaudi, 2003). Nei primissimi anni settanta i dirigenti dell´organizzazione andavano, ovviamente, davanti alle fabbriche. Gli operai li guardavano incuriositi: quei ragazzi parlano così bene, dicevano, che non ci si capisce un accidente. Erano di bell´aspetto, quasi sempre, brillanti e fin troppo consapevoli di celebrare il rito prepotente della loro stessa gioventù, purtroppo a scapito di chiunque.
Aspiranti guerriglieri rimpinzati di letture assai impegnative da cui derivavano parole d´ordine ancora più rischiose, non solo per loro: dall´auto-appropriazione al rifiuto del lavoro salariato. Si presero una cotta per il black-out di New York intravedendo nel saccheggio dei negozi una prima realizzazione del comunismo. Flirtarono con il Manifesto, sognarono la rivolta a Reggio Calabria come a Porto Marghera, non ci fu lotta che non osservarono «con la lente d´ingrandimento», con le dovute deformazioni. Ma tutto questo rimanendo tanto spiritosi quanto cinici. Una volta, durante un´assemblea, alcuni lavoratori della Fatme si misero a polemizzare con loro spaccando il capello in quattro. E allora Piperno, sottovoce, a un compagno: «Non avremo mica sbagliato classe?».
E forse sì: avevano sbagliato – magari solo in quello. Pochissimi in effetti erano gli operai. Il gruppo dirigente non solo era fatto quasi tutto di professori, fisici, filosofi, persino un preside come Emilio Vesce. Usavano una lingua tutta loro. «Un misto di “scrittura” paradossale e scandalistica di carattere marinettiano – la giudicò Pier Paolo Pasolini – e di “scrittura” sociologica anglo-americana. Inoltre, per essere popolari adottano (…) il modo di parlare della televisione e del più banale giornalismo (compreso quello del Borghese, quando non addirittura quello dei bollettini parrocchiali)». Di questo «potoppese» e delle sue astruse circonlocuzioni ha dato auto-ironico saggio Letizia Paolozzi nel suo romanzo «Viaggio nell´isola»: «Il programma dello stato è andato in crisi. Con lo stato della crisi», ma del caso anche con la crisi dello Stato. Eppure non mancano -specie nella prosa di Negri e di Piperno, che non sapeva battere a macchina ma era un formidabile oratore -picchi al tempo stesso lirici e arcani, combustibili e baroccheggianti, «la terribile bellezza», «la geometrica potenza», fino all´indimenticabile confessione in pubblico del professor Negri (per quanto già in fase autonoma): «Immediatamente sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna…». E ancora oggi si resta di sasso di fronte a una ricerca di calore da ottenersi in quel modo, a quei prezzi. Come se la rivoluzione, in fondo, fosse stata un grande gioco senza arbitro; o un modo elegante per ingannare i propri vuoti, o sedare gli impulsi più nascosti.
Sovversivismo, dunque, ma anche maschilismo, gusto per l´azzardo, orgoglio insolente di gruppo, smania di supremazia, a volte sovrana indifferenza del senso delle proporzioni. Racconta Grandi che, gelosi dell´inno di Lotta Continua, i dirigenti di Potop se ne vollero creare uno loro, e a Scalzone parve normale riadattare la Varsovienne, canto rivoluzionario russo del 1905, pezzo forte del coro polifonico dell´Armata rossa, infarcendolo di truci minacce -«nasce il partito dell´insurrezione» – per giunta espresse in versi un po´ zoppicanti.
Sull´idea stessa di partito, in fondo, c´erano dissensi fra Negri e Piperno. «Il partito – scolpiva quest´ultimo -è come una forchetta e ancora non è stato inventato nient´altro per mangiare». Però poi la sera mettevano da parte astratte dispute e propositi brechtiani e soprattutto i romani, si fiondavano al cinema. Rifuggivano le pellicole d´impegno e sembra coltivassero una sintomatica passionaccia per i western-spaghetti. Il film di culto è tuttora ritenuto «Vamos a matar companeros», forse per una certa atmosfera latino-americana molto popolare negli anni settanta, forse perché Tomas Milian assomigliava a Che Guevara. Ma fa un brutto effetto ricordarlo oggi.
Se non ci fossero stati dei morti, e troppi feriti, e altrettanti dolori, ecco, più a cuor leggero si potrebbe scrivere oggi che la storia di Potop è stata essa stessa un film. Se Morucci non fosse stato a via Fani, con maggior tranquillità si potrebbe dire che assomigliava a Dennis Hopper, faceva il verso a Franco Nero e girava con i capelli al vento e l´impermeabile bianco su una moto Guzzi 500 color grigioverde. E infastidisce la passione per le armi («Grande, ma slanciata, essenziale, la pistola blu sembrava disegnata da un ingegnere del Bauhaus»), e ancora di più quando sembra equiparata a quella per le donne («Aveva labbra carnose – così una compagna – e denti candidi che spiccavano sullo scuro della pelle»). Quel pezzo di storia è ben altro da un mazzo di carte francesi e la frase con cui Engels, non Marx, chiedeva alla vita null´altro che «una bottiglia di Chateau Morgaux del ?48».
«Poteve opevaio», con la erre moscia, lo sbertucciavano i numerosissimi detrattori indicando, più che le nobili ascendenze culturali (Quaderni rossi, Classe operaia, Tronti e Asor Rosa) le feste con gli intellettuali borghesi, le vacanze nelle ville al mare dei ricchi, quella sorta di bohéme rivoluzionaria che tanto doveva essere andata a genio a Giangiacomo Feltrinelli, il compagno «Osvaldo». A Morucci propose addirittura di «bombardare Porto Cervo». E quello vai a sapere che faccia fece. Potòp, potòp: e sembra di ascoltare come dei botti in lontananza, ma forse è solo il rumore della memoria.