ROMA. Dopo la pace con la maggioranza rutelliana della Margherita, il leader della componente ulivista Arturo Parisi si getta ora in una nuova sfida: le primarie del centrosinistra. Sassarese trapiantato a Bologna ma con con l’orgoglio delle profonde radici sarde, Parisi è l’inventore dell’Ulivo e fondatore dei Democratici, assieme a Romano Prodi, e della Margherita, di cui è presidente dell’assemblea federale.
Onorevole Parisi, con Rutelli e Marini nella Margherita avete fatto pace o è una tregua armata?
«No no, è pace. La definirei una pace per».
Per?
«Per riprendere a realizzare il progetto dell’Ulivo che noi non abbiamo abbandonato».
Perché nel partito avete scelto di chiamarvi opposizione e non minoranza?
«Per rimarcare il dissenso su un punto che ridefinisce l’identità del partito».
Tutto per lista unitaria nel proporzionale o c’è dell’altro?
«La scelta sulla lista unitaria ha portato in evidenza divergenze legittime che esistono sin dall’inizio».
Quali?
«Riguardano l’idea dell?livo in mome del quale la Margherita è nata. E l’idea di Margherita come strumento per costruire l’Ulivo».
Stumento transitorio?
«Come ogni partito che si considera una via e non una meta, uno strumento e non un fine».
Il punto è questo: quanto deve durare il passaggio al Partito democratico?
«C’è chi pensa in mesi, chi in anni, chi in decenni».
L’hanno accusata di voler accelerare troppo.
«Eppure io, che sono il più determinato sulla meta, sono tra i più prudenti sui tempi».
Quanto tempo occorre?
«Intorno a questa domanda giostrammo al nostro ultimo congresso».
E anche dopo.
«Sì, solo che i più ottimisti al congresso si sono ora manifestati come i più resistenti».
A chi si riferisce?
«Marini disse: ci vorrà un altro congresso. Franceschini parlò di due. Io dissi che è un cammino di ben altro respiro, quello che mi preoccupa è la certezza di arrivare, è la determinazione a partire, non quanto ci si impiega».
C’è stato lo scontro nella Margherita anche perché avete capito che la leadership di Prodi era in pericolo?
«Non tanto la leadership della persona, quanto la forza della proposta, del progetto che è associato al nome, della politica degli ultimi dieci anni».
L’accordo sulle primarie è stato decisivo. Regge?
«La decisione è confermata, si terranno l’8 e il 9 ottobre».
Sono possibili complicazioni tecniche?
«No, se c’è la volontà politica di farle».
C’è?
«Non ho motivo di dubitarne».
E l’ipotesi del rinvio?
«Bisogna sapere che rinviare è facile, trovare un altra data è impossibile. Ma oggi con l’appello di Biagi a votare Prodi si puo’ dire che la campagna elettorale sia già iniziata».
Dopo il caso Puglia, Prodi sarà sfidato da Bertinotti. Rischia?
«Io le immagino come primarie vere».
Ma c’è chi avverte che una vittoria non nettissima di Prodi indebolirebbe la leadership.
«Le primarie sono aperte al rischio non solo del quanto ma anche del se».
Il rischio che vale la pena correre?
«Se non fosse così avrebbe ragione chi le definisce un teatrino».
C’è anche chi dice che se c’è già l’intesa sul leader non ha senso fare le primarie.
«Ma le primarie hanno spostato il loro accento dalla persona. Più che a rafforzare la leadership di Prodi servono a rafforzare la proposta».
Gli elettori delle primarie saranno quindi chiamati a scegliere tra proposte diverse?
«Tra priorità programmatiche diverse. E il vincente sarà chiamato a guidare tutta la coalizione, che a sua volta accetterà le priorità indicate dal leader».
E’ per questo che avete giudicato insufficiente un pronunciamento riservato agli iscritti ai partiti?
«Noi puntiamo ad andare molto più in là del numero degli iscritti. E’ un’operazione di coinvolgimento di massa. Le primarie consentono ai cittadini di dire: quel candidato l’ho scelto io, quel programma ha anche la mia firma. Vogliamo vincere e soprattutto convincere».
Perché avete rivolto un appello ai cittadini?
«In un passaggio drammatico quale quello attraversato oggi dal Paese, il cittadino deve avere la possibilità di partecipare direttamente anche alla definizione della proposta».
Primarie anche come arricchimento della democrazia?
«La scommessa è che la salvezza del Paese sia affidata alla crescita della democrazia».
Perché la sfida del governo sarà terribile?
«Anche per questo. Abbiamo piena consapevolezza dei rischi che corre il Paese, delle difficoltà cui andiamo incontro, delle speranze di cui siamo caricati».
E’ vero allarme?
«L’Italia è in una situazione disastrosa, ci si chiede come il governo stia ancora in piedi. Pensi a Strasburgo, al comportameto dei leghisti contro Ciampi».
Lei ha avanzato il sospetto che fosse la conseguenza della cena di pace tra Bossi e Berlusconi della sera prima ad Arcore.
«Io ho detto che la domanda può apparire impertinente ma la debolezza della reazione del presidente del Consiglio non ci consente di definirla infondata. Quello che sappiamo è che hanno parlato di attacco all’euro e all’Europa per farlo coincidere con l’attacco a Prodi. La verità è che si muovono sempre nel binario tracciato nel 2000 da Berlusconi, Bossi e Tremonti, lo stesso che ha provocato il dissesto dell’economia e ora sta provocando il dissesto costituzionale. Anche se il governo è ormai in crisi permanente, il programma di distruzione del Paese non è ancora compiuto del tutto».
L’euro sarà campo di battaglia elettorale.
«L’euro ci ha salvato da una crisi di tipo argentino».
Ma i cittadini sanno che i prezzi sono volati.
«Perché non guardare anche a quanto costa oggi il danaro e a quanto costava prima? E comunque come dimenticarsi del governo, che non ha accompagnato il Paese nel passaggio tra la lira e l’euro».
Torniamo alla Margherita. Vede tentazioni di neocentrismo?
«Nella Margherita certamente no, se neocentrismo è uscita dallo schema bipolare, lo escludo nel modo più assoluto, altrimenti non sarei restato nel partito».
Eppure lo ha denunciato.
«Quello che ho denunciato è il rischio di un risucchio nel passato per la scelta del partito di collocarsi nel centrosinistra nella posizione più a destra e di riconoscersi nel compito di intercettore dei voti che vengono dalla destra».
Cosa dovrebbe fare?
«Condividere il compito di promuovere tutta la coalizione parlando a tutta la società».
Non vede compiti distinti tra gli alleati di centro e di sinistra?
«Personalmente sono del parere che sia sbagliato, perché la distinzione rischia di mettere in moto un processo di scomposizione e di divaricazione, che sappiamo come inizia ma non sappiamo come finisce».
Cosa pensa dei malumori dell’Udc?
«Sono per il bipolarismo, so che la cosa che conta di più è la scelta di campo. Per questo motivo non posso riconoscere il tono più moderato col quale l’Udc avanza le sue proposte senza ricordare la loro colpa di aver scelto Berlusconi e aver governato con lui. Per una volta mi sono trovato d’accordo con Berlusconi quando al congresso dell’Udc ha chiesto: ma dov’erano in questi anni?»
Troppo facile distinguersi alla fine?
«Ho visto troppe volte in aula che il voto non corrispondeva alle parole di distinguo».
Rinuncia a un’eventuale alleanza con l’Udc?
«Io lavoro perché molti elettori dell’Udc scelgano il nostro campo. E le voci che ho sentito recentemente nelle assemblee di Cisl, Confartigionato, Confindustria mi fanno bene sperare per il futuro».
Governo Berlusconi in crisi soprattutto per l’economia?
«L’economia è inesorabile. Ma quella che è entrata in crisi è la credibilità soggettiva del governo. All’inizio il governo ha provato a scaricare le sue responsabilità sul passato e sul mondo. Per un po’ ha anche funzionato ma adesso la verità è sotto gli occhi di tutti».
E’ l’effetto negativo anche delle leggi ad personam?
«Molti avrebbero pure chiuso un occhio se Berlusconi avesse dedicato un po’ di tempo anche al Paese. Ma il Paese è arretrato in tutte le graduatorie mondiali, con l’unica eccezione di quella degli straricchi. Mentre tutti gli altri italiani si impoverivano Berlusconi avanzava nella classifica dei Paperoni».
A fine legislatura il centrodestra vuole completare le riforme costituzionali? Ce la faranno?
«E’ lì che attendiamo appunto alla prova i dissidenti dell’ultima ora».
Veniamo alla Sardegna. Lei è stato eletto anche nell’isola, nel proporzionale, ma ha optato per il collegio di Bologna.
«E’ la legge che lo impone».
Come mai non ha partecipato al congresso regionale?
«Non ero stato invitato, forse per le divergenze che avevo con la maggioranza del partito dell’isola. Preferirei non parlarne. Anche perché spero che sia per tutti una storia passata».
Qual è il giudizio su Soru dopo un anno?
«All’altezza delle attese, positivo. Sapendo che i giudizi sono sempre somme di addendi positivi e negativi».
Gli addendi negativi?
«Sono quelli associati alla categoria dei tagli e della difficoltà per le categorie colpite di farsi una ragione dei loro sacrifici. Come dimenticare che le ristrettezze di bilancio hanno costretto la giunta a colpire attese spesso legittime e comunque consolidate?».
Gli addendi più positivi?
«Nell’insieme la tensione per la riformna della macchina Regione e la difesa dell’ambiente. Senza dimenticare il capitolo sanità, del quale conosco tutte le difficoltà».
Lei si schierò subito a favore di Soru. Perché?
«In nome della fiducia che ho in lui e per l’occasione di cambiamento che, al di là delle persone, veniva offerta ai sardi dall’elezione diretta del presidente. Una rivoluzione antropologica prima che politica».
Antropologica?
«Una Sardegna che passa finalmente dalla rappresentanza degli interessi particolari di una somma di territori a una visione generale».
Nel partito ci fu un duro scontro su Soru.
«I partiti sono come le persone, cambiano opinione. Ora il segretario polemico è uno degli assessori più efficienti e autorevoli, il candidato alternativo, come coordinatore della Margherita è ora uno dei sostenitori più determinati e leali».
Cosa ha fatto cambiare idea. Tattica politica?
«Tutto all’infuori di una scelta tattica».
E allora?
«Hanno capito che il rilievo del cambiamento imponeva una scelta. E che era necessario accettare il passaggio dal noi all’io per quanto riguarda la responsalità di governo. Oggi questa responsabilità ha finalmente un nome e un cognome».
Soru come sta interpretando il ruolo?
«Sta dimostrando di interpretare questo passaggio epocale di unione dei sardi, rappresentando e rafforzando il nostro orgoglio e la nostra dignità».
Ma c’è chi si lamenta di uno squilibrio istituzionale tra potere esecutivo e potere legislativo.
«Prima c’era uno squilibrio a favore delle assemblee, ora a favore degli esecutivi».
Come uscirne?
«Ci vuole un’evoluzione della riforma».
Sempre legato alla sua città?
«Non ho mai celebrato un Natale fuori Sassari. E di Candelieri ne avrò mancati dieci su sessantaquattro».
Per il suo carattere talvolta duro viene talvolta paragonato a Cossiga.
«Apparteniamo alla stessa cultura, abbiamo condiviso importanti esperienze, ma non credo che sia la durezza il tratto che ci accomuna, tratto più sardo che sassarese».
Si sente più sardo o più bolognese?
«Un sardo che vive a Bologna da 37 anni e che è rimasto sardo grazie ai bolognesi».
Perché?
«Bologna è una città aperta e democratica. Mi ha consentito di restare quello che ero senza costringermi a fingermi altro, a cominciare dalla parlata. Non tutte le città ne sono capaci».
Cosa porterebbe della Sardegna a Bologna e di Bologna in Sardegna?
«A Bologna soprattutto la natura della mia isola, da Bologna la storia della sua democrazia comunale».
Un’ultima domanda. Cosa la lega così tanto a Prodi? La professione universitaria, l’amicizia personale, la sintonia politica, l’interesse di partito?
«L’interesse di partito certamente no. Tutto il resto sì. E’ la garanzia di un rapporto solido, di un’amicizia fondata su affinità elettive».