11 Ottobre 2004
Scelte e riconoscibilità del cristiano nella transizione italiana
Autore: Arturo Parisi
Cercherò di rispondere, brevemente, a quattro interrogativi:
quali sono state le scelte elettorali dei cattolici nell’ultimo voto?
quale percorso e processo ne è all’origine?
possiamo ritenere (e in che modo) conclusa la “questione cattolica”?
che cosa, infine, ci suggeriscono i dati circa il rapporto tra appartenenza religiosa e politica per il futuro?
1. LE SCELTE POLITICHE DEI CATTOLICI
Per rispondere al primo interrogativo è inevitabile (almeno per me) affidarsi ai dati, sempre precari e discutibili, come tutte le informazioni derivate dai sondaggi campionari di opinione, ma al momento non sostituibili.
Il voto cattolico tra coalizioni e partiti
In riferimento al profilo religioso, misurato dal tradizionale indicatore della pratica, i dati evidenziano, per quel che riguarda il maggioritario (il dato che più conta), come il profilo socioreligioso delle due principali coalizioni sia sostanzialmente simile. A fronte di una media di praticanti qui stimato, sulla popolazione generale intorno al 36%, tra gli elettori dell’Ulivo essi sono il 31%, e il 32% tra gli elettori della Casa delle Libertà (CdL). Cambiando la direzione dell’analisi e guardando a una ordinaria assemblea domenicale, questo equivale ad affermare che in una domenica ordinaria, in una messa ordinaria, il celebrante deve immaginarsi di avere di fronte a sé una assemblea composta dal 44% di elettori dell’Ulivo, dal 46% della CdL e dal 10% di altri orientamenti.
Si tratta di una conferma, visto che nel 1996 le due principali aree erano rappresentate nella stessa assemblea domenicale dal 44% di elettori dell’Ulivo, e dal 42% del Polo unitamente alla Lega. È la conferma di una rivoluzione. L’approdo di un dato non scontato. Se si va alla ricerca di un termine di riferimento basti considerare che nella seconda metà degli anni ’70, tra gli elettori della Democrazia cristiana, i praticanti erano compresi tra il 60 e il 70% (a seconda delle indagini) e tra gli elettori degli altri partiti essi erano compresi tra il 14 e il 18%. Allora erano posti di fronte due mondi completamente diversi. E in una normale assemblea domenicale il celebrante poteva supporre di avere di fronte a sé il 66% di democristiani e il 34% di cattolici che votavano altri partiti.
Un tasso non sufficiente (o all’epoca non più sufficiente) per potere affermare che l’assemblea domenicale era la Dc raccolta in preghiera, come era stato detto della Chiesa anglicana rispetto al partito conservatore, ma comunque tale da poter dire che si era ancora vicini a quella figura.
Una rivoluzione non esclusiva del nostro paese, verificatasi anche in altri paesi dell’Europa, i quali hanno assistito allo stesso sganciamento tra appartenenza religiosa e appartenenza politica. Basti richiamare qui la Spagna, che nelle prime elezioni del dopo Franco vedeva l’assemblea domenicale dominata dalle formazioni del Centro cattolico (oltre la metà) e ora vede invece compresenti con le stesse percentuali (34 – 40%) elettori del Partito socialista ed elettori del Partito popolare. Altrettanto non si può dire della corrispondenza di questi processi con il comportamento delle gerarchie, se è vero che alla domanda su quale sia a parere degli elettori spagnoli la preferenza partitica della Chiesa, il 68% ha dichiarato: “non so” o “penso equidistante”. Sarebbe interessante porre la stessa domanda ai nostri concittadini.
Di minore interesse è il dato relativo ai partiti. Esso conferma lo sganciamento tra le due variabili. In nessun partito l’incidenza dei cattolici è tale da consentire di qualificarlo come un partito dei o almeno di cattolici, come fu un tempo per la Dc. Anche il Biancofiore, l’unico partito che porta la croce nel simbolo e l’aggettivo “cristiano” nella denominazione, vede una adesione di cattolici del 56%. Allo stesso tempo, nessun partito occupa nell’assemblea una posizione di sicuro predominio. Questo non esclude che ci siano partiti con una connotazione relativa “cattolica” maggiore di altri, ma si tratta appunto di connotazioni relative.
Se ci sono partiti che hanno al loro interno esattamente il tasso di cattolici che il loro peso elettorale fa attendere (questo è il caso, nelle ultime elezioni, di Forza Italia, che riceve il 29,4% tra gli elettori e il 29,4% tra i praticanti), ce ne sono altri (è il caso Dl-Margherita, che ha tra i praticanti il 50% in più di quello che ci si sarebbe atteso) che registrano nello scostamento una loro connotazione religiosa in senso relativo. E altri ancora che registrano un segno negativo. Tra questi vi sono in particolare i Ds, i quali subiscono un cambiamento nel tempo: dal 1996 a oggi, essi hanno perso il 25% di praticanti.
La specializzazione confessionale delle formazioni dentro la coalizione crea tensioni tra le diverse componenti. Il dato del 2001 riduce l’equilibrio del 1996. In quelle elezioni si era registrata non solo una equidistribuzione dei cattolici in entrambe le coalizioni, ma anche una loro spalmatura all’interno delle coalizioni. Se si dovesse assistere a un ritorno di specializzazione confessionale, si perderebbe il contributo positivo che la presenza dei cattolici lungo tutto lo schieramento partitico comporta per la costruzione del bipolarismo. Infatti, la presenza dei cattolici lungo tutto lo schieramento partitico sia che si tratti del risultato di una dinamica probabilistica, sia che derivi dalla scelta consapevole dei cattolici rappresenta una delle principali condizioni per il funzionamento e la crescita della nostra democrazia.
I cristiani e il bipolarismo
Uno degli effetti positivi del bipolarismo è la contaminazione e il confronto dentro i due poli tra le diverse culture e ispirazioni. Per quel che riguarda il centro-sinistra, l’Ulivo ha rappresentato la condizione che ha favorito questa contaminazione, e questa contaminazione è la causa e l’effetto della crescita dell’Ulivo. La comune appartenenza a un’impresa più grande ha favorito il dipanarsi della presenza dei cattolici in tutte le sue formazioni: il comune denominatore (l’Ulivo) rende relativamente meno ardua ai praticanti la scelta del numeratore (i singoli partiti); allo stesso tempo, la presenza dei cattolici in tutte le formazioni ha favorito la crescita elettorale dell’Ulivo.
Se la diminuzione dei cattolici tra i Ds dovesse ulteriormente svilupparsi, essa potrebbe comportare una divaricazione tra le componenti interne della coalizione, lungo il crinale religioso. È per questo che occorre esprime apprezzamento per chi, da cattolico democratico, ha lavorato in condizioni di minoranza in quelle formazioni e per chi continua a farlo per mantenere aperta questa relazione e favorire complessivamente la crescita di tutto il bipolarismo. La trasformazione dei Ds in una formazione “laicista” sarebbe uno svantaggio per tutti: per il centro-sinistra, per la Chiesa, per tutto il paese.
Pur con queste preoccupazioni, la lettura della realtà ci consente di dire che il sistema bipolare è giunto a un solido compimento: certo nella quantità, ma anche in senso qualitativo; e la dislocazione delle scelte dei cattolici risulta, da questo punto di vista, cruciale.
Se la scelta dei cristiani, la libera scelta concreta dei cristiani è condizione per il funzionamento del bipolarismo, sia per la dimensione della competizione, sia per l’unità politica che trascende la competizione, l’affermarsi del bipolarismo indirizza la scelta politica dei cristiani sul suo oggetto specificamente politico, e libera allo stesso tempo la coscienza dai condizionamenti dell’appartenenza sociale, a cominciare da quella socio-religiosa. Il bipolarismo e il coinvolgimento diretto del cittadino nelle scelte relative al governo, liberati da tutti i vincoli di appartenenza, spingono la scelta elettorale a cercare il proprio fondamento nell’esercizio del giudizio politico e morale e non invece nella meccanica adesione a una proposta formulata dall’esterno del campo della scelta. Libertà e responsabilità, esercizio della coscienza e libera scelta trovano nel bipolarismo la loro condizione prima perché questa chiamata possa svilupparsi.
Qui sta la grandezza e il rischio di quello che è avvenuto, di quello che sta avvenendo. Non era scritto da nessuna parte che chiamati a spaccare la mela saremmo riusciti a spaccarla esattamente a metà nel senso delle qualità e della quantità. Se questo è capitato è perché i cattolici erano già collocati al centro della dinamica politica. Se questo è capitato è perché i cattolici hanno guidato i processi per evitare nuove fratture e risolverne di vecchie.
Non è scritto da nessuna parte che quello che è avvenuto trasformi questa potenzialità in atto. Perché si giunga definitivamente a quest’esito è decisivo un lavoro di ricostruzione e di condivisione del processo che ne è all’origine, affinché il futuro possa svilupparsi nel segno del recente passato. Senza questa condivisione una parte dei cattolici rischia inevitabilmente di venire risucchiata dal sentimento della nostalgia e dalla tentazione del ritorno all’indietro. Questo processo è fattibile solo se si è in grado di riconoscere nel presente alcune delle radici del nostro passato.
2. NEL PROCESSO DI TRANSIZIONE
Qual è dunque questa origine? Dal momento che è inevitabile, nella ricostruzione del processo che ci ha condotti sin qui, una connotazione autobiografica, tanto vale dichiararla.
Il processo di cambiamento
Per la mia generazione, per la generazione del concilio, questo equivale a ricordare un incontro: l’incontro con un messaggio di rinnovamento che ci venne dall’assemblea conciliare. E dovendo scegliere un testo di riferimento, certamente quella generazione si riconobbe in quello che andò sotto il nome di Lettera a Diogneto. Una lettera della Chiesa subapostolica che a noi laici-cristiani fu consegnata alla vigilia del Concilio e che trovammo citata nei testi del magistero conciliare come un riferimento prezioso. Quella lettera ci chiamava a essere portatori di una cittadinanza paradossale, a essere tra gli uomini di tutte le città quel che è l’anima nel corpo, a essere distribuiti in tutte le articolazioni dell’organismo sociale come il lievito nella pasta.
Accogliemmo quel mandato antico e nuovo, che ci chiedeva di essere ovunque la realtà spirituale che le forme culturali esprimono nelle loro diversità, ascoltando una “profezia”, attribuibile a un sociologo e politologo tedesco, O. Kirkhheimer. Negli stessi anni del Concilio, egli dichiarò finito un tempo della politica, quello del sistema dei partiti che in Europa occidentale si era identificato con i partiti di massa, cioè che rappresentavano delle masse, delle agglutinazioni di uomini tenuti assieme dagli umori (fossero essi il sangue, il sudore o il pianto) che le vecchie fratture ottocentesche ci avevano consegnato, per dare luogo ai partiti di rappresentanza individuale. Il successo dei partiti aggregati di massa, che avevano asciugato il sangue, il sudore e le lacrime di masse di uomini, riconsegnava ora le persone a una domanda di rappresentanza politica individuale. Era la fine di un modello, quello dei “partiti pigliatutti”.
Di fronte all’invito spirituale a scioglierci e alla profezia dello scioglimento che si annunciava con la fine dei partiti di rappresentanza di massa, fu per noi immediato ritenere che se i cristiani erano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo, questa animazione dovesse compiersi nella polis e all’interno delle sue articolazioni partitiche. E se le articolazioni partitiche attuali erano superate, perché attardarsi a difenderle, non sarebbe stato più necessario e doveroso dedicarsi alla costruzione di nuove grandi case, in grado di contenere tutti, nelle quali sarebbe stato più facile l’incontro e l’esercizio della prossimità?
Erano domande ingenue? Domande di ragazzi? Erano soprattutto domande che contrastavano con una realtà che vedeva concretamente l’anima concentrata esclusivamente in una sola parte del corpo e l’altra parte del corpo totalmente inanimata.
L’annuncio del Concilio produsse in alcuni un allontanamento, in altri una risposta impaziente per la mancata soluzione di questi interrogativi, inducendoli a iniziare in solitudine avventure in altri luoghi della polis, avventure che in alcuni casi hanno equivalso a un perdersi per le strade del mondo, anche se noi crediamo che ogni viaggio comprenda in sé sempre la possibilità di un misterioso ritorno. Quella condizione contraddittoria condusse il nostro sistema a segnare il passo per altri 25 anni, sino alla sua dissoluzione. Sino a quando, grazie alla caduta del muro di Berlino, non si determinarono le condizioni per il passaggio da una democrazia che si accontentava di rappresentare a una che puntava a mettere al centro della sua attenzione il governo e i cittadini, a restituire, come si disse in quegli anni, lo “scettro al principe”, la possibilità di “giudizio all’arbitro”.
Questo passaggio, che senza quelle dinamiche precedenti non sarebbe stato reso possibile, è da identificare con il processo di riforma istituzionale avviato dai referendum del 1991 e del 1993. La conseguente forma bipolare che il nostro sistema politico ha cominciato ad assumere è stata la condizione della praticabilità di questo risultato.
Di fronte a una situazione in cui le istituzioni dello stato versavano, grazie a questo rinvio di 25 anni, in una crisi generale e profonda che può essere descritta come la somma di crisi di rappresentanza e di crisi di legalità, che generava una crisi di funzionamento dello stato e una frattura sempre più profonda nel rapporto tra società e politica, tra società e istituzioni, il movimento referendario individuò, a fronte della smobilitazione del sistema di rappresentanza precedente prodottasi lungo il decennio degli anni ottanta, proprio nella riforma del modello di competizione elettorale e nel passaggio da una democrazia rappresentativa e consociativa a una di tipo governante e competitivo il luogo da cui riprendere il dialogo e il contatto con i cittadini, attraverso cui ridare sovranità ai cittadini, regole e funzionamento alle istituzioni.
Se i cattolici non sono stati scavalcati dagli avvenimenti e dal cambiamento, anche a fronte del loro coinvolgimento a ogni livello nella precedente stagione; se non hanno assolto a una funzione residuale o di retroguardia, ma hanno preso parte attiva e propositiva al cambiamento, ciò è dovuto soprattutto alle scelte personali e coerenti di una parte di loro: quelli di ispirazione democratica, solidaristica e liberale.
Fedeli all’ispirazione democratica, non alle forme storiche della politica
Mentre riconosciamo il comportamento virtuoso di una componente del cattolicesimo italiano nel processo di transizione, dobbiamo anche riconoscere che la scelta di contribuire direttamente e in modo pluralistico alla definizione democratica dello stato italiano fino alla sua realizzazione compiuta in un quadro laico e aconfessionale ha robuste e lontane radici nella storia del cattolicesimo italiano. È per questo che ci addolora la diffusa incapacità tra i cattolici di riconoscere nel futuro il proprio passato.
Si tratta di una vicenda storica complessa che è passata in forma prevalente dentro la Dc. Quanto di questa tradizione culturale ha attraversato la Dc approdava già idealmente a quest’esito. La realtà è che i cattolici democratici interni alla Dc da un certo punto in poi hanno anch’essi segnato il passo, rinviando sine die la decisione di dare corso effettivo alla loro stessa ispirazione, di fare storicamente corrispondere ispirazione e responsabilità. Essi sono stati tentati di prolungare la rendita di posizione della fase intermedia, necessitata dallo scontro ideologico nazionale e internazionale. Essi sapevano che la forma democristiana era una forma transitoria, che le ragioni che spinsero De Gasperi a discostarsi dalla impostazione sturziana, riconducendo il partito al di qua della “linea sturziana”, accettando anche nel nome la qualifica di “cristiano” e la soggiacente matrice confessionale, erano inesorabilmente segnate dal tempo. E tuttavia hanno rinviato all’infinito il suo superamento.
Si è trattato di un rinvio interessato, perché da quella giustificazione della fase intermedia derivava, di fatto, la continuazione della legittimazione del proprio potere. Da quel momento in poi, il “centro”, il “centrismo” che in Sturzo era sinonimo di “popolarismo”, cioè di un profilo temperato e non estremo, relativo e non assoluto, autonomo e non confessionale, parziale e non cattolico dell’identità programmatica, e in De Gasperi il punto d’equilibrio del corpo sociale e della natura non ideologica e laica delle coalizioni politiche ha finito col rappresentare il punto d’equilibrio della fisica del potere, la riduzione di ogni questione politica a equilibrio tra le forze, rovesciando il rapporto tra legittimazione e consenso. Il “centrismo”, divenuto semplice punto di equilibrio nel parallelogramma delle forze, ha assunto la stessa valenza ideologica che ha avuto nel Pci (fino ai Ds compresi) il primato del partito sulla politica. Il ritardato superamento di quella stagione ha reso via via illusoria e giustificazionista la lettura cattolico-democratica della storia del partito cristiano.
Un rinvio “infinito”, fintanto che gli avvenimenti esterni, sostituendosi a ogni necessaria e ritardata decisione, si sono essi incaricati di dichiararlo “finito”.
Potremmo affermare che la cultura cattolico-democratica, che ha per tempo tematizzato il compimento della democrazia e riconosciuto il contributo pluralistico dei cattolici alla vita politica e delle istituzioni, è stata, a un tempo, conservata e tradita dalla storia democristiana. È sopravvissuta come categoria ideale ed è stata tradita sul piano dei comportamenti. La Dc non ha mai usato parole diverse dalle nostre, da quanti cioè pur dichiarandosi cattolici e democratici di quel partito non hanno mai fatto parte, ma ha dato prova di una prassi diversa, contraddittoria e contraria allo spirito di quelle parole.
Basti ricordare che mentre dichiarava la a-confessionalità del partito difendeva oltre ogni limite storico la denominazione cristiana del partito. Né possiamo dimenticare che pur nella distinzione degli ambiti, la Dc lavorò sino alla fine nel presupposto e con l’obiettivo di coinvolgere l’organizzazione ecclesiastica nella propria organizzazione e nella propria struttura di mobilitazione.
Per questo, a partire dagli anni ’90, coloro che hanno inteso rivendicare l’attualità dell’ispirazione cristiana della politica e della cultura cattolico-democratica, cioè riproporne la lezione storica nel processo di cambiamento, hanno scelto coerentemente la via delle riforme istituzionali, identificando in esse il passaggio necessario per una nuova rilegittimazione delle istituzioni e per ciò stesso il luogo che consentisse di ridare una nuova definizione politica alla nostra democrazia, avviarne la pratica concreta e in essa ricollocare le scelte e la partecipazione dei cattolici alla vita civile.
Per ciò, per chi vuole affermare la continuità ideale con la lezione del cattolicesimo democratico questo equivale oggi a contestare la continuità della prassi che è continuità della forma partitica e della forma istituzionale.
A questo proposito vorrei rilevare che la fedeltà alla lezione storica del “popolarismo” sturziano è da alimentare anzitutto come fedeltà alle idee e non alle forme storiche che esse hanno assunto e ai nomi che le hanno storicamente identificate. Ed è questa stessa idealità che a mio parere impedisce oggi di ripeterne il nome. Il nome evoca le forme, le forme evocano le stagioni storiche e le loro interne contraddizioni: non possiamo dimenticare che dire “popolare” oggi significa dire ancora democristiano, non possiamo dimenticare che si è “popolari” grazie alla Dc e non nonostante la Dc.
Per questo abbiamo bisogno di un popolarismo maturo, consapevole delle contraddizioni storiche che esso nominalmente evoca, un popolarismo che è chiamato a produrre una scelta nel superamento del suo nome. Così come Sturzo si inibì l’uso del nome Democrazia cristiana di derivazione murriana, per le contraddizioni che esso evocava, nell’intento di ridire in forme nuove alcune delle idealità del movimento democratico-cristiano, chi vuole oggi recuperare la lezione sturziana deve accettare di privarsi di un nome che si è dissociato nel tempo, in Italia e soprattutto in Europa, dal suo originario significato.
È questo diverso itinerario, questa fedeltà all’ispirazione conciliare, che ha consentito al cattolicesimo democratico di resistere al destino che voleva, nel sistema bipolare, il cattolicesimo concentrato in una delle due parti: segnatamente quella moderata e conservatrice.
È questa stessa ispirazione che deve anche aiutare a resistere alla volontà di identificarlo in forma esclusiva o prevalente, all’interno dell’una o dell’altra delle due coalizioni, con una delle sue componenti, quella maggiormente residuale della stagione politica precedente.
Il primo esito ridurrebbe drammaticamente lo scarto tra identità, missione della Chiesa e interesse politico di parte; e vedrebbe negata la natura non religiosa della lotta politica, rinchiudendo il cattolicesimo italiano in una forma culturale.
Il secondo esito, pur salvando la distinzione dei piani tra Chiesa e politica, condurrebbe concretamente il restante cattolicesimo politico a una condizione di marginalità.
Riconoscendo la determinazione storica di questo processo, noi riconosciamo anche che la distribuzione del voto cattolico non è casuale e che grazie alla storicità di questo processo ci sono formazioni, in entrambi gli schieramenti, che vedono al loro interno i cattolici più presenti che altrove. È un dato di cui non dolersi certo, ma a cui va offerta una prospettiva politica e culturale.
La scelta di non essere “il centro”, una parte statica del campo politico (sia del centro-destra, sia del centro-sinistra), ma di stare “al centro”, nel caso qui maggioritario del centro-sinistra, ha comportato e comporta dal punto di vista dell’appartenenza religiosa e dal punto di vista delle scelte politiche una diversa incidenza di questo processo.
3. UNA NUOVA “QUESTIONE CATTOLICA”
I cattolici irregolari
Possiamo dire che la “questione cattolica” intesa come questione della separatezza dei cattolici in politica sia conclusa? Io ritengo di no, che essa non possa essere ancora dichiarata definitivamente conclusa.
Per affrontare questo interrogativo e argomentare la mia risposta credo che sia di una qualche utilità partire dal discorso di insediamento che, il 1° giugno 2001, il neo-presidente Pierferdinando Casini ha tenuto alla Camera. Un discorso scialbo, e forse anche per questo destinato a essere registrato dalle cronache come il discorso della Madonna di San Luca. Casini ha infatti concluso il suo discorso con l’invocazione alla Vergine venerata dai bolognesi, affinché gli concedesse la protezione per svolgere con serena imparzialità e rigore il suo mandato di presidente della Camera. L’episodio ha registrato numerose critiche. Tutte accomunate da un giudizio di inopportunità. Esso potrebbe essere dimenticato se non si fosse inquadrato in un contesto di azioni del tutto particolare. È un tema che affronto con un qualche imbarazzo e allo stesso tempo con intenzionale rispetto. Ma l’episodio mi sembra troppo emblematico perché lo si possa affidare esclusivamente alle solite descrizioni di un antropologo americano.
Le cronache, assieme alla chiusura del discorso e al successivo pellegrinaggio (privato per il cerimoniale, ma non per i media) al santuario di San Luca, registrarono anche il fatto che all’ingresso del presidente Casini nell’aula, il presidente si rivolse, mandando dei baci, alla tribuna del pubblico e in particolare ai suoi familiari, tra i quali sedevano, assieme alla madre e ai figli, la sua attuale compagna, a lui legata in forma lesiva della normativa canonica. Un dato che se esige rispetto sul piano personale è simbolicamente non marginale, soprattutto se si pensa che Casini è il leader di una forza politica, l’unica, che difende nel suo simbolo il riferimento alla croce e al nome cristiano, o se si rammenta l’imbarazzo di segretari della DC del passato, quando, trovandosi in situazioni personali non regolari, avessero dovuto recarsi in visita in Vaticano o presso alti esponenti della gerarchia cattolica, o, ancora, se si tiene conto che tutti i leader della CdL, che esibisce e rivendica una particolare prossimità col cattolicesimo italiano, sono nella stessa situazione, a cominciare da Berlusconi. Se si tiene conto di tutto questo, noi abbiamo un’immagine esemplare di quanto sia lontano quel mons. Fiordelli che, alla vigilia del Concilio, denunciò come pubblici concubini due dirigenti del Pci perché erano sposati con rito civile. Di fronte al rilievo e all’eccezionalità simbolica di questa trasgressione dobbiamo chiederci a chi pensava, a chi parlava dunque Casini quando, da cattolico, esibiva un cattolicesimo così irregolare?
Torna utile fare qualche osservazione a partire dai dati che descrivono il grado di secolarizzazione, assumendo l’indicatore classico della pratica religiosa regolare. Accanto al dato più evidente, quello che fissa la frequenza alla pratica religiosa degli italiani intorno al 36%, dopo il calo dell’inizio degli anni ’70, vi sono altri due dati che non vengono adeguatamente valorizzati. Il primo segnala la riduzione della dichiarazione di estraneità, indifferenza, ostilità all’appartenenza religiosa dominante: il fronte del rifiuto si è ridotto significativamente dal 32% al 14%. Allo stesso tempo si registra una crescita della pratica irregolare dal 31% al 50%. Concentrati sul primo dato, relativo alla stabilità nel tempo della frequenza regolare, ci si è dimenticati di fare attenzione al resto. In particolare al dato degli irregolari.
Ecco rivelato a chi si rivolgeva Casini. Non a noi, che abbiamo fatto sentire il nostro diverso avviso per il luogo istituzionale in cui parlava, per l’associazione impropria tra il gesto e le parole, ma a loro, al nuovo cattolico medio. Il cattolico appunto irregolare. È questa un’area della quale sappiamo sempre meno, e che tuttavia ognuno di noi intercetta anche nella propria famiglia, un’area della quale abbiamo esperienza ma non adeguata coscienza. Quest’area è la maggioranza del popolo italiano. Con questa area la CdL ha stabilito un rapporto superiore, più efficace di quel che ha fatto l’Ulivo. Questo rapporto va crescendo e stabilizzandosi. A meno che non si voglia negare a essa, alla maggioranza del popolo italiano, ogni qualifica “cattolica” a motivo della sua irregolarità, dobbiamo riconoscere che essa rappresenta il cattolicesimo popolare, cioè quello prevalente del popolo, della gente. Quello a cui fa riferimento qualsiasi partito che intenda competere per la rappresentanza del popolo. Con questo popolo il cattolicesimo democratico deve prendere contatto nella Chiesa e fuori. Riconoscendo innanzi tutto la maggiore capacità della CdL di parlare a questa gente. In questo caso di parlare al cattolico medio col linguaggio dell’uomo medio.
Agnosticismo clericale a centro-destra, moralismo aristocratico a centro-sinistra
Si può introdurre qui il tema problematico dell’aristocraticismo del centro-sinistra. In genere ce ne compiacciamo, avendo assegnato a noi stessi la parte dei “giusti” e degli “intelligenti”, in contrapposizione alla parte degli “incolti” e degli “ingiusti”, riservata agli altri. Sta qui una delle radici delle tentazioni antidemocratiche che costituiscono un limite della nostra cultura, con la quale dobbiamo confrontarci. Rispetto a questo mondo, il cattolicesimo democratico, cresciuto alla scuola del Concilio, deve tuttavia riconoscere che se conserva una capacità di contatto con la maggioranza del cattolicesimo praticante rischia di non avere rapporti adeguati col cattolicesimo irregolare.
Noi oggi dobbiamo riconoscere la forza sociale dei cattolici irregolari se vogliamo che la critica culturale e religiosa rivolta nei loro confronti risulti significativa e non corrisponda al nostro grado di isolamento culturale, non produca un nostro isolamento politico e non configuri il persistere di un loro grado di marginalità ecclesiale.
Questa dinamica apre il rischio di una nuova “questione cattolica”.
In tutti i suoi punti, l’attuale dirigenza del centro-destra, sia nella sua parte maggioritaria, che è di tipo variamente liberale e non cattolica, sia in quella minoritaria, che è variamente cattolica, è accomunata da una condizione compiutamente secolarizzata, sia nelle biografie, sia nel momento della sua legittimazione.
Mentre il centro-sinistra, in parte per la propria forza, in parte per la propria debolezza ha mantenuto aperta un’interlocuzione e una richiesta di legittimazione verso le autorità ecclesiastiche, il centro-destra ritiene di non avere bisogno di alcuna legittimazione e sviluppa una interlocuzione di tipo puramente istituzionale, secondo quelle che sono le risorse di governo di cui oggi dispone.
La maggiore fonte di legittimazione di Berlusconi sono gli Stati Uniti. La stessa legittimazione americana è conseguita e praticata autonomamente, direttamente e positivamente. Il “partito americano” proposto da Berlusconi ottiene a titolo proprio, non più derivato indirettamente o congiuntamente dalla o con la Chiesa e direttamente dallo scontro ideologico, legittimità. Più che alla società americana, il “partito americano” berlusconiano tuttavia è pienamente omogeneo alla media dei valori italiani, alla media sociale, a quella società media cui Berlusconi parla con la propria biografia, additando coerentemente la sua vicenda come la vicenda tipo, la “Storia di un italiano”. Questa medianità è componibile col cattolicesimo irregolare.
4. LA NOSTRA RESPONSABILITÀ: NÉ ISOLARCI, NÉ ISOLARE
Se è proprio il cattolicesimo democratico che rischia paradossalmente di riaprire una “questione cattolica” potenzialmente chiusa, noi possiamo e dobbiamo qualificare la nostra responsabilità rifiutando ogni isolamento. Volendo indicare in uno slogan il nostro compito potremmo dire che noi non dobbiamo né isolarci, né isolare.
La sindrome del figlio fedele
La dirigenza cattolica che fa riferimento alla quota politicamente consapevole dell’assemblea domenicale rischia di fatto di avviare un discorso tra religione e politica che apre un contenzioso sulla legittimità (potremmo dire sulla maggiore fedeltà) del cattolicesimo democratico rispetto alla quota meno consapevole o irregolare. Potremmo chiamarla la sindrome del figlio fedele, quello restato a casa nella parabola del figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32).
Non riconoscere la forza e il limite dell’omaggio alla Madonna di San Luca significa, a un tempo, non riconoscere il nostro limite e la nostra forza, e condannarci a una critica puramente moralistica verso il cattolico medio. E la natura moralistica del giudizio, che reca con sé quel senso di superiorità intellettuale e morale che spesso ci contraddistingue, è un tratto eminentemente politico, descrive un limite politico, ed è il frutto della confusione tra moralità e legalità, tra valore e legge. Tutte le volte che noi imputiamo a Berlusconi i suoi comportamenti noi diamo infatti un giudizio morale, non politico. Ciò che noi dovremmo descrivere e dichiarare sono le sue contraddizioni istituzionali, quelle contraddizioni che sono dentro la politica e non fuori della politica.
Tommaso Moro, che ci è stato indicato recentemente dal magistero della Chiesa come modello di santità nell’azione e nella responsabilità politica, non contrappone semplicemente la religione alla legge. Dice “no” al re in nome della coerenza della legge che giudica entrambi, non in nome di una realtà esterna al vincolo istituzionale. Nel dire “no” egli è sostenuto dalla fede, che ne rafforza il convincimento su ciò che sia giusto o ingiusto all’interno della politica, fino a fargli sopportare la morte. Il suo “no” deriva dalla contraddizione tra la legge e il comportamento che il re gli chiede.
Se il cattolicesimo democratico fa proprio il criterio di giudizio moralistico, esso si condanna a sconfitta politica certa. Poiché, mentre si inibisce la possibilità di evidenziare e stigmatizzare le contraddizioni dei comportamenti istituzionali (ciò che rafforza il senso e il valore della democrazia, anche nel caso di una sua sconfitta politica, dal momento che la legge si esercita su un piano distinto dal senso comune), si condanna altresì a perdere sul versante del senso comune. Su quel versante, il populismo è più forte. E lo stesso cattolicesimo popolare è prossimo a scivolare verso il cattolicesimo populista, se noi non ne riprendiamo il contatto e la guida fuori da ogni atteggiamento moralistico. Quello stesso moralismo condannerebbe il cattolicesimo democratico a una sconfitta non solo da parte della cultura agnostica e clericale del centro-destra, ma anche da parte della cultura sperimentale e pragmatica della sinistra.
I cattolici di ispirazione democratica e liberale debbono oggi difendere il valore della democrazia sul piano dell’esercizio delle regole. Ben sappiamo che il valore eccede e fonda le regole, ma il nostro ragionamento e la nostra azione devono sapersi collocare coerentemente e responsabilmente all’interno della politica.
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NOTE
I dati statistici cui fa riferimento Arturo Parisi sono dell’Abacus, riportati nell’articolo “Vince Berlusconi, cresce l’Ulivo”, di Gianfranco Brunelli, in “Il Regno Attualità” n. 10, 15 maggio 2001.
Il saggio citato di O. Kirkhheimer è “The transformation of the Western European Party System”, in J. La Palombara, M. Weiner (ed.), “Political Parties and Political Development”, Princeton University Press, Princeton, 1966.