«L’approvazione della Legge Rosato che il Pd ha salutato in Parlamento con un boato gioioso ha trasformato quello che avrei condiviso come un giorno di festa in un giorno di lutto». Lapidario e analitico, Arturo Parisi non usa mezzi termini – nel giorno dei 10 anni dalla fondazione del Pd – per commentare la legge elettorale. E la stessa analiticità la usa per raccontare il decennio di un partito di cui è stato tra i padri fondatori.
Professore, come ricorda le riunioni di quel Comitato Nazionale, che nel 2007 raccoglieva i leader del centro- sinistra per immaginare il Pd?
Proprio quei giorni, onestamente, li ricordo confusi. Ricordo invece la lunga gestazione aperta dal Referendum del 1993. Quattordici anni di lotte guidate dalla speranza dell’avvento di una democrazia governante, di un governo capace di governare con quella forza che può venire soltanto da una investitura democratica dei cittadini e non più da una delega ai capi dei partiti che gli consenta di farli e disfarli continuamente in parlamento. Dalla urgenza che fosse messa finalmente al centro della scelta ‘ quale l’Italia vogliamo’ e non più il censimento secondo ‘ le Italie dalle quali venivamo’, la costruzione del futuro comune e non più la rappresentanza dei distinti passati. È da lì che bisogna capire per ragionare attorno al Pd.
Ha nostalgia di qualcosa, di quella fase costituente?
L’unica nostalgia è quella della sensazione di un futuro imminente, dell’idea, che per un momento ci pervase e accomunò, che si stava aprendo una fase nuova, radicalmente nuova. Una fase nuova nella storia del mondo, e perciò in Europa e in Italia. Non soltanto una fase della nostra vita e del nostro campo politico. La caduta del Muro di Berlino e quindi dell’infinito secondo dopoguerra del ‘ 900 alimentò in noi l’illusione di un mondo finalmente unito nella pace con i popoli chiamati a condividere il suo governo su un piede di parità. E dentro questo quadro l’idea di una Europa unificata, e, come nelle matrioske russe dentro questa l’Italia. E come potevamo noi partecipare a questa festa vestiti ancora con i costumi della guerra fredda, ognuno con i suoi canti ed i suoi riti? Urgeva un partito nuovo, radicalmente nuovo un modo nuovo di riconoscerci, competere e stare assieme. Lo confesso arrossendo come si arrossisce quando si è sorpresi a parlare da soli sognando ad occhi aperti.
Che Pd è quello di oggi? Lei riconosce quello che avevate immaginato allora, che doveva fondere insieme le due grandi culture della sinistra riformista?
Protagonista del Pd nascente, e prima ancora dell’Ulivo fu la generazione del dopoguerra. Quella nata tra il ‘ 45 e il ‘ 75. Una generazione meticcia che si era già mescolata nelle lotte operaie e in quelle studentesche. Una generazione che negli anni dell’Ulivo cercava dentro la politica nuove forme per esprimere finalmente quella novità che i partiti passati si erano fino ad allora rifiutati di riconoscere e quella unità che invano insistevano a spartire. Altro che due culture. Le culture erano molte di più e allo stesso tempo una sola. Ora quella fase è giustamente finita. La generazione nata a partire dal ‘ 75 non ha più bisogno di lottare contro nemici ormai sconfitti. Dentro un mondo profondamente diverso rivendica giustamente il diritto di fare da sola le proprie scelte e i propri errori.
Scorrendo i nomi dei fondatori del partito, molti oggi se ne sono andati sbattendo la porta. Lei come ha vissuto queste fratture, l’ultima delle quali quella di D’Alema e Bersani?
Rileggendo i nomi dei componenti del Comitato Promotore per alcuni mi chiedo anche io come mai c’erano finiti dentro. Di meno, anche se con dispiacere, mi chiedo invece come in tanti siano finiti fuori. La verità è che di quella storia non avevano mai fatto parte. In troppi avevano adottato la strategia che suggerisce al giunco di piegarsi finché passa la piena, con l’Illusione di rialzarsi presto. Hanno così fatto finta di condividere cose che avrebbero dovuto contestare invece di nascondersi dietro l’unanimità delle assemblee. È così accaduto che la piena è passata, ma in troppi non hanno avuto più la forza per rialzarsi.
Tra i grandi assenti in questo anniversario, almeno alla festa, c’è il nome pesante di Romano Prodi. Peserà questa assenza?
Di certo sono ancora molti quelli che la noteranno e se ne dorranno. Non so se, come è accaduto anche per me, si sia trattato di sciatteria. Nel caso si tratta di una sciatteria colposa. Forse hanno sottovalutato il fatto che anche un partito nuovo ha bisogno di riconoscersi in un qualche passato. Più dei partiti vecchi. Se dieci anni sono pochi per le persone, figuriamoci per un partito.
Che cosa non ha funzionato di quel progetto iniziale? Molti hanno indicato l’attuale segretario come il “rottamatore” di quell’ideale originario.
Diciamo che ha dato ad intendere di confondere la rottamazione delle persone con il rinnovamento delle idee, e la rottamazione delle idee con la sorte delle persone. Un errore che spero che anche lui non riesca a perdonarsi.
È di ieri l’approvazione alla Camera del Rosatellum. È tramontato definitivamente uno dei pilastri fondativi del Pd: la vocazione maggioritaria.
Quella è stata la scelta che il primo segretario ha pensato di imprimergli e, sulla sua scia, anche Renzi, non il suo pilastro fondativo. Purtroppo la legge Rosato ha sancito la fine della stagione della democrazia governante. L’elettore non troverà più sulla scheda la domanda su qual è l’Italia che vuole, e chi dovrà dargli conto di questa risposta nell’azione di governo, ma di nuovo soltanto a chi delega queste risposte. Che il Pd vada al voto da solo come aveva immaginato Veltroni, o in compagnia. Le coalizioni della legge Rosato sono null’altro che apparentamenti elettorali pensati per offrire ad una parte un quota di seggi superiore ai voti raccolti. Diciamo che manipola la rappresentanza senza assicurare la governabilità, privando così la prima della sua principale giustificazione. Debbo dire che da questo punto di vista l’impossibilità di partecipare domani al decennale mi ha risolto un problema. L’approvazione della Legge Rosato che il Pd ha salutato ieri in parlamento con un boato gioioso ha trasformato quello che avrei condiviso come un giorno di festa in un giorno di lutto, che per me fa rima con lotta. Se penso al Referendum del 18 aprile del 1993 dal quale tutto è iniziato sento che la primavera della democrazia governante che allora sognammo ha ieri incontrato un suo autunno.
Oggi, lei si sente ancora vicino a questo Pd?
Diciamo che mi sento vicino al Pd come si è vicini ad una cosa viva che è sempre una cosa dubbia. E, aggiungo, più vicino di molti dei suoi dirigenti. So Infatti che per la nostra democrazia il Pd è una cosa troppo importante perché lo si possa lasciare nelle sole mani dei suoi dirigenti di turno. Lo dico non in nome della nostalgia del passato, ma della preoccupazione per il futuro.