Non e’ al “compagne e compagni” con i quali Fabrizio Gifuni ha salutato i compagni riuniti al Palalottomatica che dobbiamo guardare. A farci riflettere deve essere l’applauso liberatorio col quale la platea ha detto di sentirsi riconosciuta da Gifuni per quello che oggi e’ ancora e per quello che si sente da sempre: i continuatori di una precisa storia, i rappresentanti di uno specifico popolo. Il popolo appunto di quanti si chiamano da sempre tra loro con orgoglio e con affetto “compagni”. E’ in quel “e’ da tanto che volevo dirlo” che ha fatto seguito al “compagne e compagni” di Gifuni che dobbiamo cercare la sua forza
emotiva: la protesta contro la negazione della identita’, la sofferenza subita, la liberazione di un sentimento troppo a lungo represso.
Non e’ questo tuttavia il popolo al quale i Democratici pensavano di avere dato vita, il popolo per il quale il Pd e’ nato. Se questi anni ci hanno consentito di comprendere la profondita’ e il calore della identita’ che sta dietro quel “compagne e compagni”, essi non sono stati tuttavia sufficienti per farci dimenticare che c’e’ un popolo piu’ grande, enormemente piu’ grande che sente quel “compagne e compagni” per quello che all’inizio e’ stato: un annuncio di lotta, un segno che e’ all’interno di solidarieta’, ma allo stesso tempo un segno che all’esterno e’ di contrapposizione. E’ a quel popolo che il Pd deve parlare, sapendo che il nostro problema, piu’ che i nomi che ci legano alle divisioni del passato, sono i nomi che non abbiamo ancora trovato per evocare l’unita’ del futuro.