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20 Ottobre 2009

Pd: non basta scegliere chi guida ma in che direzione ci porta

Autore: Arturo Parisi
Fonte: Il Riformista

Meno cinque. Tra poco piu’ di cento ore questa sequenza di conte, di sostenitori “a prescindere”, di tessere, di voti, di delegati, di elettori che e’ stata contrabbandata per un congresso, sara’ finita. Grazie al lodo Scalfari, che dicono abbia corretto sui media una delle tante storture del famigerato Statuto, sara’ evitato al partito l’eventuale rinvio della proclamazione del risultato in Assemblea. Il Pd tornera’ a prendere finalmente la parola, per dire dopo un silenzio troppo lungo, in che direzione intende andare.
 
Come, mi auguro, tanti anche io mi associero’ domenica alla festa democratica che abbiamo deciso di chiamare primarie. A differenza di tanti, anzi di troppi, non so ancora tuttavia per chi votare. Come mi e’ gia’ capitato da iscritto nel mio circolo, ho idea che anche questa volta votero’ scheda bianca. Anche se, a differenza delle due precedenti primarie, il voto al quale son chiamato non e’ solo la conferma di una decisione gia’ presa, non ho difficolta’ a confessare che questa volta non so proprio chi scegliere. Considerate le loro personali qualita’, potredi dire che i candidati mi vanno tutti bene, le linee da loro proposte tutte male, non fossaltro perche’ sconosciute. Se difronte alle primarie “per” Veltroni, la sera del 14 ottobre di due anni fa dissi che sapevamo chi aveva vinto ma non quale linea avesse prevalso, ho paura che la sera del prossimo 25, sapremo sicuramente chi ha perso ma anche questa volta poco della linea che ha vinto. Col risultato che, come la volta scorsa, il vincitore avra’ diritto a raccontarcela dopo dicendo che l’aveva annunciata prima. Che avrebbe aperto un confronto sulla legge elettorale col “principale esponente dello schieramento a noi avverso”, che avrebbe concordato una “separazione consensuale” con gli alleati di governo, che avrebbe puntato immediatamente ad elezioni per alleggerirsi di un governo indifendibile, che, per poter raggiungere la vittoria sarebbe andato da solo ma anche con di DiPietro, perche’ pronto unificarsi in un solo partito, nonostante avessimo appena escluso la possibilita’ che ci mescolassimo nelle primarie.
 
Per parte mia, questa volta, non ho sottoscritto a priori candidature, non ho fatto tessere con l’obiettivo di portare il mio candidato alla vittoria, non ho accettato di essere nominato membro di organi dirigenti con un metodo esattamente uguale a quello della legge elettorale che un tempo definivamo una “porcata”. Ho invece invitato quelli che hanno con me camminato in questi anni ad ascoltare tutti, e a votare, a ragione veduta, mettendo in gioco il nostro passato per mescolarci ancora una volta con altri in nome del futuro e costrueire cosi’ nei fatti quel partito nuovo che i suoi maggiori avversari, come certo e’ stato in questi anni Rutelli, scoprono ora “non ancora nato”. Li ho invitati ad alleggerersi dei giudizi sui passati dei diversi candidati, e dai pregiudizi sul futuro che da questi derivavano, dal peso di ogni passato, dal passato di questi due anni firmati da Veltroni e Franceschini ma scritti d’amore e d’accordo da tutto il gruppo dirigente, dal passato degli ultimi centocinquantanni che ci hanno visto contrapposti e che ci trovano ora uniti a condizione che non si parli degli anni nei quali siamo stati divisi. 
 
Ieri ho sentito il fondatore di un importante quotidiano della sinistra magnificare il percorso che abbiamo alle spalle non fossaltro che per la forza quantitativa di cui dispone il Pd, del del 26,5% di voti alle europee, del 56% degli iscritti che hanno votato alle primarie. (Come avremmo titolato se alle politiche avesse votato solo il 56%, con regioni come la Sicilia, la Basilicata e il Molise a piu’ del 70% e regioni come l’Emilia al 35%!) Ho sentito pure dalla Annunziata il direttore dello stesso quotidiano enfatizzare il percorso di questi mesi dal punto di vista qualitativo e tuttavia annunciare un voto bianco. Esattamente come me, che ha paura di finira a votare scheda bianca per impotenza e insoddisfazione, profonda insoddisfazione. 
 
Dibattito ricco? Quale? Quello rinviato a dopo il voto degli iscritti per non turbare la loro scelta con le nostre divisioni? Quello della convenzione nazionale dove mille delegati sono stati portati a Roma per applaudire ognuno il monologo del proprio candidato e tutti assieme altre deleghe ad altri delegati in tempo per il telegiornale delle 13? Il sospirato Youdem senza confronto e senza contradditorio? E poi dibattito su che cosa? In questi mesi e’ successo di tutto: dalla crisi economica alla crisi delle morale pubblica; dall’attacco leghista all’Unita’ del Paese, alla apertura di un confronto nuovo sulla cittadinanza; dalla drammatica vicenda Afghana al dibattito sulle riforme istituzionali. Di tutto si e’ parlato. In qualche modo. Ma tutto ci e’ passato sopra. Se e’ vero che tutti attendono lunedi’ il nome della persona con la quale andare a parlare per conto del Pd, chi si sorprende che nessuno attenda dal voto una risposta impegnativa ai problemi del Paese?
 
Ecco perche’, cosi’ come Ezio Mauro attende per votare di capire quale dei tre candidati mette “al centro l’emergenza istituzionale”, altri, come me, attendono risposte, non solo per l’emergenza ma per la normalita’, per il presente certo ma soprattutto per il futuro.
 
Perche’ qua sta l’identita’ del partito e la diffenza tra i candidati. Certo il fatto che queste primarie siano le ultime oppure no, e’ importante. E importante e’ anche, se, a decidere non finisca una assemblea di delegati, ma il voto diretto degli elettori, come Marini ha sorprendentemente sostenuto innovando profondamente rispetto alla sua diffidenza verso le americanate. Ma piu’ importante e’ il disegno all’interno del quale queste scelte si collocano e soprattutto le necessita’ storiche del Paese che le giustificano.
 
E qua entra in campo D’Alema. Quello che in questo congresso e’ mancato e’ infatti il confronto finalmente aperto e leale con la sua linea, la linea troppe volte evocata, minacciata, auspicata come linea della maggioranza del partito “reale”, l’unica linea, anzi, meglio, l’unica posizione riconoscibile che in questi anni si e’ contrapposta con continuita’ e coerenza agli innovatori e ai novisti, alla continuita’ dell’Ulivo e a quella che, ex post, fu proclamata la discontinuita’ del Lingotto. La linea che appena qualche giorno fa D’Alema ha svolto proprio su questo giornale muovendo dalla “emergenza Berlusconi” ed evocando la sua soluzione: il ritorno ad una democrazia dei partiti, fondata sul proporzionale, e alla continua tessitura di alleanze in parlamento grazie alla politica, cio e’ a dire alla professionalita’ dei politici di professione. Tutto il resto ne viene di conseguenza: la concezione del partito forte, il ritorno ai cartelli elettorali, si chiamino pure di nuovo Ulivo alla Bersani, la ricerca della identita’ del partito nell’antico solco della cosiddetta sinistra piu’ o meno rinvigorita da apporti nuovi. In un paese normale, l'”emergenza Berlusconi”, l’avrebbe gia’ risolta il suo partito ha detto D’Alema: sostituendolo! E’ evidente che quel Paese normale non e’ lo stesso di quelli che cianciano in inglese di Primarie, di Obama, di Ohio come se fossimo gia’ in America, e neppure di quelli come me che, sanno quanto ancora lontana e l’America ma tuttavia pensano che bisogna tornare a camminare in quella direzione, non fossaltro perche’ e’ la’ che abita gia’ la maggioranza degli italiani anche se, purtroppo, solo come turisti per 
caso o pendolari giornalieri.
 
E’ di questo che vorrei ci parlassero almeno in queste ultime ore i candidati: Marino che ha conosciuto personalmente nel mondo sanitario l’America del merito e del rigore, Franceschini che pur avendola frequentata in questi anni con Veltroni, da’ spesso ad intendere che in discussione stia la persona di D’Alema e non la sua linea, Bersani del quale conosciamo il principale sostenitore, ma non cosa lui pensi della sua linea.
 
Nella concezione della democrazia dei partiti, un partito, non e’ solo uno strumento per raccogliere statistiche elettorali, e neppure uno strumento di propaganda nelle mani dei vertici, ma soprattutto un luogo di formazione della volonta’ collettiva.
 
E’ per questo che queste cento ore che ci separano dal voto non possono essere sprecate. Non e’ certo un voto che possa dirci troppo, o che possa darci piu’ di tanto. Ma almeno sulla direzione di marcia una risposta deve darcela, non fossaltro per evitare che le domande di altri ci trovino impreparati e ci lascino divisi.