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5 Maggio 2012

PARTITI E POLITICA. COSA MI DIVIDE DA D’ALEMA

Fonte: l'Unità

Di Massimo D’Alema si possono dire, e si continueranno a dire molte cose. Ma nessuno potrà mai negare la riconoscibile nitidezza della sua posizione, e, se si escludono alcuni cedimenti occasionali all’ulivismo e alla democrazia diretta, soprattutto la coerenza con la quale l’ha svolta nel tempo.

E’ questo l’inevitabile approdo della lettura della sua ultima intervista dedicata all’attuale crisi politica sull’Unità di domenica scorsa. E’ questa la premessa del confronto dal quale deve muovere chi volesse o dovesse fare i conti con lui. Certo, perchè, come nel mio caso, chiamato in causa personalmente, ma anche solo perchè interessato ai temi da lui sollevati, e su di essi impegnato all’interno del Pd ma non solo al suo interno. Privi del riferimento alla sua posizione sarebbe oltretutto difficile orientarsi non solo tra le analisi della crisi politica presente, ma nella ricostruzione del percorso che ci ha portato qui e nella individuazione del modo in cui uscirne.

Massimo D’Alema è infatti uno dei pochi che in questo infinito ventennio ha tenuto e, aggiungo, imposto il suo punto. E’ per questo che giustamente è riconosciuto come leader nel gruppo dirigente del partito. Non certo perchè presidente di quella che è nei fatti la Fondazione culturale del partito, e, in quanto tale Presidente del coordinamento delle Fondazioni ufficiali dei partiti socialisti europei. E’ per questo che chi vuole capire il senso e la direzione che il Pd va svolgendo sui temi principali dell’agenda politica deve guardare a lui, e non invece alle carte costitutive del partito, o ai semplici deliberati ufficiali. Sia che si guardi alle riforme istituzionali, alla nuova legge elettorale, alla regolamentazione dei partiti, o al finanziamento della politica.

E’ allo svolgimento del suo pensiero e della sua azione che deve quindi far riferimento chi vuole interpretare il passaggio dell’intervista nel quale, guardando alla situazione attuale, D’Alema pur riconoscendo l’esistenza di “una grave crisi della politica e del rapporto tra la politica e i cittadini” si rifiuta di “definire” questa crisi come “una crisi dei partiti”. Esattamente all’opposto della lettura suggerita dalle cronache che proprio in questi giorni descriverebbero, come mai in passato, i partiti coinvolti da un profondo disfacimento, frutto di corruzione, prepotenza e allo stesso tempo impotenza, mentre semmai crescono nella società movimenti che questa stessa crisi va generando, sicuramente preoccupanti ma innegabilmente “politici”. A che cosa pensa dunque D’Alema quando parla di “cittadini”, di “politica”, di “partiti”? E’ qua che torna utile la nitidezza e la coerenza della sua posizione.

Questa domanda può trovare infatti risposta solo se della attuale posizione di D’Alema si riescono a riconoscere le radici antiche. “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica” disse quindici anni fa D’Alema a Gargonza in un insuperato discorso che per la sua onesta limpidezza meriterebbe di essere studiato nei corsi di educazione civica. E aggiunse. “La politica è un ramo delle professioni intellettuali. E fino a questo momento non si conoscono società democratiche che hanno potuto fare diversamente. L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista.”

Non era quella di D’Alema la reazione irritata, uno scatto di nervi contro l’ennesimo assalto “tardo sessantottino”, ma il cuore di un discorso meditato che ancora ci interpella. E’ la politica null’altro che i politici, e, tra questi, soprattutto quanti hanno scelto di fare di questa nobile arte la loro professione? Sono i partiti strutture di raccordo attraverso le quali i politici di professione esercitano la loro egemonia sui cittadini? Sono queste le domande che Massimo D’Alema ripropone al centro del dibattito ancorchè sotto forma di affermazioni, e, soprattutto va svolgendo nell’azione affinchè le sue convinzioni possano finalmente diventare fatti.

Oppure hanno ragione gli “estremisti”, come un tempo furono gli ulivisti, che sentono che è cresciuta nella società una domanda di partecipazione politica incarnata da milioni di cittadini che ogni giorno, discutono, leggono e scrivono di politica, indisponibili ad accettare che la politica non sia altro che quello che fanno i politici. Una minoranza certo, ma tuttavia una minoranza enormente più grande di quella educata in passato alla delega, una minoranza che non si accontenta più solo di farsi rappresentare, ma che chiede di poter contare anzi decidere sul governo della Repubblica, esattamente come sarà consentito domani ai Francesi, esattamente come capita ormai da noi da ventanni nel governo locale e regionale. E aggiungo: grazie alle lotte degli estremisti.

E’ da queste domande che dobbiamo partire per decidere se le riforme costituzionali, e la nuova legge elettorale debbano finalmente consentire ai cittadini di eleggere tutti i  propri rappresentanti, senza privarli della capacità di scegliere il governo, o sia invece più prudente lasciare queste scelte nelle mani della “politica degli specialisti”. E’ da queste domande che dobbiamo partire per decidere se sia prudente che i partiti si affidino alla libera contribuzione  dei cittadini, col rischio che essi ritirino o non rinnovino la loro delega, o, invece sia preferibile un finanziamento pubblico che, come ha detto D’Alema “deleghi” (!!) “ai cittadini la scelta della forza politica preferita” (AGI, 20.4).

E’ da queste domande che dobbiamo partire per capire se il dettato dell’art.49 che individua nei cittadini i soggetti del diritto di dar vita ai partiti come strumento della loro  azione sia da prendere alla lettera, o viceversa è ai partiti che deve essere riconosciuto il
primato come soggetti che preesistono alla scelta dei cittadini.

E’ da queste domande che infine dobbiamo partire per rispondere alla domanda sul perchè abbiamo fondato il Pd, e invece non ci siamo accontentati di un Ulivo come “grande comitato elettorale” che D’Alema mi rilancia a proposito della scelta di dar vita ad una legge elettorale di impianto proporzionale. E’ la risposta che diamo alle risposte precedenti che dice infatti se la nostra intenzione fosse quella di fare del Pd un partito a forte identità che grazie alla professionalità politica del suo gruppo dirigente e alla conquista nelle elezioni del primato relativo puntasse a diventare la guida di altri partiti, oppure farne uno strumento per consentire alla maggioranza dei cittadini di partecipare ad esso “determinando” così il governo del Paese.