Arturo Parisi le chiama le Tramatze, dal luogo lungo la 131 che spesso ha ospitato le liti del Pd: quelle interminabili e tesissime riunioni interne al Pd sardo, caratterizzate spesso dallo scontro tra le correnti, non sui grandi temi della politica. «Si finiva per discutere di sedili e sederi», dice tagliente il professore, uno dei padri fondatori del Pd, ma sempre più critico con le scelte del partito. Un partito che, alla luce delle mappe sulla distribuzione del voto, «appare sempre più di centro e ha perso contatto con le periferie», osserva. Il risultato elettorale, che ha visto volare il Movimento 5Stelle e la Lega, si spiega anche così.
Si aspettava degli esiti simili?
«Onestamente no. Alcune tendenze erano chiare da tempo. Ma non certo la misura. Soprattutto per l’impennata della Lega all’interno del centrodestra. Diciamo che quelli che sembravano dei rimbombi di tuono erano invece l’annuncio di un terremoto».
In particolare, si aspettava una simile batosta per il Pd?
«Assieme all’avanzamento dei 5Stelle, l’arretramento del Pd era l’altro dato nel conto. Fino alla fine i sondaggi lo collocavano in una forchetta tra il 22 e il 24%. Non foss’altro che per l’effetto della secessione dalemiana, troppo a lungo raccontata come una scissione, anche se alla fine si è rivelata una scheggiatura. Il risultato finale ci racconta invece una frana».
A che cosa la attribuisce? Sono solo colpe di Renzi o ci sono responsabilità più ampie?
«Per esperienza so che è inevitabile che i politici inizino dalle colpe pensando a come sostituire i colpevoli. Poiché nasco analista, preferisco invece concentrarmi sulle cause. E per capirle bisogna partire dagli effetti, che sono quelli scritti nei risultati elettorali: su quanti e su chi ha negato il suo consenso alla proposta Pd».
A chi pensa?
«Non c’è niente che descriva il problema meglio delle carte geografiche».
Che cosa intende dire?
«Se guarda le città, blu o gialle che siano, lei vedrà assai spesso un “cuore”, rosso come il Pd, che coincide con i quartieri più abbienti, e in genere è lo stesso nei territori, e, pensando in particolare al voto del Sud, nell’intero Paese. Ma penso anche alla collocazione sociale, non solo a quella la più facile da rappresentare».
Lei vuol dire che il Pd è stato percepito come il partito del centro?
«Esattamente. Ma non solo il Pd e non da ora. Più o meno come è capitato, in Germania, nel voto per Trump, in quello per la Brexit e in Francia, Democratici e Socialdemocratici più o meno uniti ai partiti tradizionali si sono sempre più identificati col centro, e al suo interno sono stati assorbiti dai conflitti e dalle vicende interne al ceto di governo e ad agende in genere imposte dall’esterno».
Come legge questo fenomeno?
«Se, come altrove, il Pd è diventato ogni giorno di più il partito del centro, quella alla quale assistiamo è una rivolta di quelli che in questo centro non si riconoscono. La definirei una rivolta delle periferie. Per ora una sommossa, più che una rivoluzione. Una sommossa di cui al momento si riescono a vedere gli effetti destabilizzanti, più che prevedere i nuovi equilibri».
A Bologna, se ha votato Pd, ha votato Casini. Ritiene corretta la scelta di fare alleanze al centro e di rompere con la sinistra?
«Sì, ho votato a Bologna, e alla Camera per il Pd. Ma mi dispiace deluderla: per il Senato mi son sentito costretto a lasciare la scheda bianca. Se, grazie al sistema maggioritario ora abrogato, la scelta avesse deciso il governo del Paese, come ancora nei Comuni e per la Regione, ne sia sicuro, il mio voto non sarebbe mancato».
E allora che cosa ha votato?
«Ho votato ben altro. Ma il sistema proporzionale, ora purtroppo di nuovo vigente, decide soltanto delle persone alle quali delegare le scelte. Affidandoti per di più in questo caso al loro buon cuore, visto che appartiene a un “diciamo partito” che ha seguito sempre linee opposte. Come avrei potuto acconsentire che Casini tornasse in Parlamento in mia rappresentanza grazie al mio voto?»
Non le piace proprio…
«Beh, uno come lui si è sempre orgogliosamente battuto, e ancora oggi coerentemente si batte, contro la mia idea di democrazia. Fino al punto di imporre a Berlusconi l’approvazione del Porcellum al posto del Mattarellum».
Che cosa pensa delle dimissioni “postdatate” di Renzi?
«Perché postdatate? Anche se con modi indisponenti, come spesso accade, Renzi ha riconosciuto la necessità di trasferire le sue responsabilità di segretario a un nuovo segretario. Ma questo passaggio avverrà quando il nuovo sarà eletto con le primarie, nelle forme previste dallo statuto. Esattamente come avviene per il capo del governo, nel caso della conclusione anticipata di una legislatura».
Quindi la ritiene la procedura più corretta?
«Se mi dice che l’annuncio doveva avvenire in una sede formale e coincidere con l’indizione urgente e accelerata delle primarie, concordo con lei. Le scadenze che ci attendono potrebbero costringere il partito a scelte che non esito a definire storiche: è bene che siano prese con la massima partecipazione e tempestività. Com’è capitato in Germania nel Partito Socialdemocratico, che in coincidenza con le nostre elezioni ha dovuto rispondere alla proposta della Merkel di dare di nuovo vita a una Grande Coalizione con la Cdu-Csu».
Condivide la linea di collocare comunque il Pd all’opposizione, o pensa che si potrebbe collaborare, per esempio col M5S?
«Ripeto: quello che si apre è un processo complesso e inevitabilmente lungo, che dev’essere fatto alla luce del sole e in cui non può essere saltato nessun passaggio. È evidente che la prima mossa tocca ai vincitori. È la democrazia».
Lei che scenario vede?
«Sia gli eletti che gli elettori della parte che ha vinto debbono spiegarsi che cosa significa che “la stagione del vaffa è finita”. È il momento di imparare a farsi carico della propria vittoria, avanzando proposte per il governo del Paese. Non basta dire: chi ha proposte da fare, le deve rivolgere a noi. Da domenica le parti si sono invertite».
In Sardegna il Pd è andato peggio che nel resto d’Italia. C’entra l’operato della Giunta regionale, o le ragioni sono altre?
«Il fatto è che in Sardegna, a causa delle responsabilità di governo che vanno dalla Regione fino ai Comuni, passando per gli enti che fanno capo al potere politico, il Pd è apparso – più che altrove – quel centro contro il quale è esplosa la rivolta delle periferie. Il Palazzo di fronte alla gente, la politica di fronte alla società. Il presente contro l’alleanza tra la nostalgia di miti passati e di incerti futuri».
Lei ritiene che anche in Sardegna il segretario regionale debba presentarsi dimissionario?
«Diciamo che, prima di aprire l’ennesima contesa sul “chi”, è tempo che il partito cominci a interrogarsi sul “cosa”. Posso dirle che, da sardo e da democratico, mi sono stancato di queste infinite “Tramatze”, in cui si finisce per discutere solo di sedili e sederi? Com’è stato possibile che il fenomeno che ci cresceva intorno, e che ora i dati ci dicono coinvolgere la metà dei votanti, non sia stato al primo punto dei nostri dibattiti?» Servirà una riflessione seria per capirlo. Serviranno altri dibattiti, ma molto differenti. Profondi, impietosi. Magari non a Tramatza.