Il Pd, lui, l’ha fondato. E prima ancora l’Ulivo. E aveva anche sostenuto pubblicamente Matteo Renzi, andando persino alla Leopolda del 2011, quando il Rottamatore era considerato politicamente appestato dalal segreteria di Pier Luigi Bersani. Inevitabile, in questo travagliato post-referendum per Renzi, ma anche per il Pd, andare a parlare con Arturo Parisi, già ministro della Difesa del governo Prodi II.
Domanda.
Professore, partiamo dal Pd che si lecca le ferite. Lei ha commentato il voto dell’assemblea PD in questi termini: «Pd,voto su relazione segretario 481 Sì 2 No 10 astenuti. Ecco il problema! Come definire un Paese dove il governo ha il 97,6% dei votanti?». Insoddisfatto di come sono andati i lavori di quell’assemblea?
Risposta. Insoddisfatto? Diciamo pure allibito.
D. Addirittura?
R. Ma le sembra che, dopo sei mesi così divisivi, un risultato così deludente, due direzioni così silenti, quello che tra i partiti consideriamo il più partito, e che si pretende il più democratico, convochi un organo che, almeno per le sue dimensioni, assomiglia a un congresso e che finisca così?!
D. Così come?
R. Con un voto bulgaro. Dopo meno di tre ore di discussione, con tredici interventi e meno della metà di votanti. Come non vedere il problema?
D. Quindi il problema è tutto nel Pd?
R. No. Non solo quello del Pd, né della sua democrazia interna. È il problema della democrazia italiana. Dico il problema, non necessariamente il dramma.
D. Ossia?
R.Ossia è evidente che qualcosa è avvenuto e sta avvenendo. Da una parte vediamo, sui palchi e sui media, i pochi, sempre più pochi e più soli, dall’altra i tanti, plaudenti e votanti. In mezzo un confronto caotico, anche se vero, dove i discorsi convivono col chiacchericcio, le proposte ragionate con le contumelie gratuite. Senza canali attraverso i quali i tanti comunicano con i pochi, senza percorsi ordinati attraverso i quali i tanti si fanno pochi. Da ciò l’importanza crescente del voto, parlo di quello pubblicamente garantito e regolato. Quei Sì e quei No, nei quali nel referendum sono precipitati, d’un tratto, sentimenti e ragionamenti, appartenenze e opinioni.
D. Potremmo dire che è la disintermediazione?
R. Esattamente. La disintermediazione e la personalizzazione. Poche altre volte è stato evidente, come in questo passaggio, dalle due direzioni a quest’ultima assemblea.
D. Spieghiamolo.
R. Da una parte, la parola di Renzi che, in solitudine, si è caricato la decisione, a partire da critiche e autocritiche.
D. Dall’altra?
R. Dall’altra il silenzio degli altri. Che esso abbia assunto la forma implicita del silenzio assenso o il voto esplicito, pressocchè unanime, sulla relazione del segretario, cioè il voto sul segretario, è soltanto un dettaglio.
D. È un effetto del partito di Renzi?
R. No. È un processo che interessa, in modo ancora più profondo, le altre formazioni, da Beppe Grillo a Silvio Berlusconi. È da molti decenni che le parole di quella che Pietro Scoppola chiamò «la Repubblica dei partiti», hanno preso congedo dai fatti.
D. Per colpa di chi?
R. Direi con l’aiuto di tutti: dagli attori in sala ai commentatori sui media. Grazie allo streaming è ora definitivamente evidente. O al liveblog.
D. Liveblog e dove?
R. La cronaca in diretta su L’Unità. Gliela leggo: «Ore 12.34 Matteo Orfini dice che ci sono 60 iscritti a parlare. Panico in sala». Ecco, in quel «panico in sala», c’è tutto.
D. E cioè?
R. Come può vivere una democrazia parlamentare, figlia di una legge elettorale proporzionale senza partiti? Ma, allo stesso tempo, come tornare a quella democrazia dei partiti, con partiti di questo genere?
D. Forse per questo tornano i teorici del modello partito: Fabrizio Barca, per esempio, imperversa. Lei, che il Pd ha contribuito a farlo nascere, ci dica di cosa ci sarebbe bisogno.
R. È arrivato il momento di scegliere. Di scegliere con un congresso urgente, con un congresso vero. La verità è che il Pd non ha ancora scelto sul serio che tipo di partito vuole essere e che tipo di democrazia vuole costruire. E non ha scelto perchè, nonostante i decenni passati, non ha preso compiuta coscienza che una fase è finita.
D. Vale a dire?
R. Vale a dire che le masse che i partiti di rappresentanza di massa rappresentavano, mi perdoni il gioco di parole, si sono dissolte da tempo.
D. Perché il Pd non l’ha capito?
R. Non ne ha preso coscienza perchè il personale, che proviene o si ispira alla tradizione dei vecchi partiti, dei due principali che sono alle sue spalle, fa fatica a dismettere attitudini, abitudini, e rendite materiali e simboliche ereditate dal passato. Lo dico con rispetto per la loro fatica e il loro dolore. È il momento di scegliere. Il tempo del «ma anche» e del «come no?» è finito. La distanza tra la realtà sociale e le vecchie forme politiche è cresciuta troppo. E quando questo accade…
D. Quando questo accade?
R. È doveroso rendersi conto che l’unica strada possibile è adattare le forme alla realtà piuttosto che l’opposto. Da questo punto di vista, apprezzo molto la generosa passione di Barca, ma credo che la sua battaglia per tornare all’antico sia destinata alla sconfitta.
D. «Abbiamo straperso», ha detto Renzi, e ha parlato di giovani e Sud. Da sinistra si voleva più autocritica. Occorreva, secondo lei?
R. Quella che è mancata di più semmai è la critica. Ci vuole pure che la critica se la debba fare l’accusato. Se fosse stato per me avrei detto: «Adesso ci fermiamo qua». Non tre ore, tre giorni. Non per sfogarci, ma per mettere a confronto analisi e soprattutto proposte.
D. E poi?
R. E poi decidere puntualmente e nel rispetto della democrazia innanzitutto su cosa fare nell’immediato in parlamento. Ma lei pensa che l’approvazione, generica, della relazione del segretario ci eviti dal rischio che la vera assemblea si riapra nei prossimi giorni sui giornali e in Parlamento?
D. Fa riferimento ai dissensi sulla legge elettorale, sollevati da Roberto Giachetti? Eppure, anche dalla maggioranza, sono arrivati a quell’intervento commenti imbarazzati.
R. Non solo a quelli ma soprattutto a quelli, perchè si riferiscono alle decisioni non solo più immediate, ma a quelle cruciali per lo svolgimento finale della legislatura. Giachetti ha detto la pura verità.
D. S’è parlato di più del «facce di… bronzo».
R. Purtroppo il colore e il calore delle sue parole hanno consentito di spostare il discorso dal contenuto alla forma. La verità è che non è chiaro quanto il Pd e quanti nel Pd siano quelli veramente determinati a difendere l’impianto maggioritario e quanti invece vogliono approfittare delle difficoltà prodotte dalla sconfitta nel referendum per tornare a un sistema il più possibile proporzionale.
D. Lei andò alla Leopolda quando non andava di moda. Quindi ha sostenuto apertamente il segretario del Pd, ma senza risparmiargli osservazioni critiche – lo testimoniano anche le interviste che ha reso in questi anni a ItaliaOggi. Quali errori ha fatto Renzi ma, soprattutto, quali rischia di fare nei prossimi delicati mesi?
R. Io posso dire solo a partire dai miei desideri. Quelli che, rispetto a un obiettivo sono errori, rispetto a un altro sono scelte corrette. Il mio obiettivo, l’unico, è la costruzione di una democrazia decidente fondata su una investitura diretta a partire da una competizione trasparente tra alternative di governo. La stessa che ispirava la riforma che Renzi ha il merito di aver proposto, ma la responsabilità di aver purtroppo portato alla sconfitta. L’obiettivo di Renzi, o almeno il primo, è comprensibilmente quello di attenuare le conseguenze della sua personale sconfitta.
D. Che farà, ora, secondo lei?
R. A stare a quel che ha detto, ha deciso di ricominciare dalla conquista del partito. Ripeto del partito, non semplicemente della segreteria. Quella è già nelle sue mani: tocca agli altri contendergliela. Se ci sono, è il momento che si facciano avanti. Sono gli altri che debbono aprire la sfida. Non è a lui che tocca sfidarli. Ripeto, questo è quel che ho capito. Ricominciare dal partito, dal «partito comunità».
D. Espressione particolare.
R. Mai ho sentito, come nel suo ultimo discorso, pronunciare tante volte la parola «comunità» contrapposta al «oopolo dei populisti». Dal «noi» invece che dall’«io». Dal «partito di tutti», invece che dal «partito di Renzi». E, anche se questo non l’ha detto dal congresso, non dalla Leopolda. Una rivoluzione.
D. È stato saggio, secondo lei? Non era meglio celebrare il congresso a marzo e andare al voto, con un segretario rieletto?
R. Certo, questo sarebbe stato il copione del vecchio Renzi, del Renzi che faceva il leone. Prima la segreteria attraverso il congresso, poi il governo attraverso le elezioni, infine il partito a partire dal governo.
D. Invece?
R. Invece ha preferito invece partire dalla conquista del partito, dalla conquista delle menti e dei cuori. Forse l’impresa più ardua. Di certo non riducibile alla road map ravvicinata, riassunta nella impaziente slide proiettata alle sue spalle. Non saprei proprio chi, se non Renzi, potrebbe mai pensare di riuscire a costruire una comunità e a ri-conquistarne cuori e menti in soli 45 giorni e quattro eventi, comprese le feste. Ecco perchè…
D. Ecco perché?
R. Ecco perché, a ogni evenienza, avrei preferito mettermi avanti col programma, facendo della ultima assemblea nazionale del partito una vera assemblea di un vero partito. In ambedue le linee di azione alternative. Di essa ci rimane invece solo l’intervento di Giachetti, come sempre autentico, e il discorso di Renzi, come sempre impareggiabile. Resta invece ancora aperta la domanda cruciale.
D. Quale, professore?
R. Sarà Renzi a conquistare il partito con la «P» maiuscola, o sarà invece il partito con la «p» minuscola a conquistare Renzi?