Arturo Parisi, l’inventore delle primarie e l’ideologo dell’Ulivo di Prodi, si schiera per il Sì al referendum, invitando il premier a riconoscere «le fatiche e i meriti» di chi prima di lui si è speso per un progetto che parte da lontano.
Professore, una previsione da politologo: vincerà il No o il Sì al referendum di autunno?
«Con la quantità di non rispondenti e di indecisi dei sondaggi di oggi, ogni risultato è ancora possibile. Più che previsioni quelli che leggo sono poco più di esorcismi guidati da sentimenti nascosti, siano essi di speranza o di paura».
Ma non la stupisce il fatto che a tre mesi dal voto sulla riforma che abolisce il senato siano stabilmente in testa i No?
«Semmai mi stupisce che siano così pochi. In consultazioni di questo tipo, mentre la maggioranza preferisce ancora tacere, a dichiararsi sono all’inizio soprattutto le voci di chi, essendo all’attacco, ci mette più sentimento. Ancor di più quando il No più che a una norma astratta è un No a chi su quella norma ci ha messo faccia e nome».
Perché Renzi ha giocato d’azzardo fornendo così una tentazione al popolo degli scontenti?
«Perchè è fatto così. Hai voglia a dire che senza un “Io” non si parte, ma senza un “Noi” non si arriva. Cambiar di marcia dall’Io al Noi è per tutti più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto quando si dimentica il Noi che è alle spalle dell’Io. E non penso solo agli esponenti della mia parte ma a voci provenienti da tutte le parti politiche.
Quanto è grave questo errore?
«Basta capirsi. Il problema non sta nella personalizzazione dell’esito del referendum, ma nella personalizzazione della battaglia per la riforma. È vero che senza Renzi saremmo probabilmente ancora ai comitati e ai rinvii. Ma sarebbe meglio non raccontarla come una impresa di parte e soprattutto come una battaglia nuova. Invece di proporre i decenni passati come decenni di fallimenti e errori, sarebbe meglio riconoscerli come una marcia di approssimazioni incompiute piuttosto che come una serie di tradimenti e cedimenti. E riconoscere allo stesso tempo le fatiche e i meriti di quanti in questo solco si sono spesi, direi a prescindere dalle loro attuali inclinazioni e approdi».
Ed è riparabile lo sbaglio per invertire il trend?
«Si deve. Non per convenienza occasionale ma a partire da una convinzione profonda, che muove da una ricostruzione rispettosa della fatica di ognuno nel prendere commiato dal proprio passato, e riconosce in questa scelta un passaggio che decide del nostro futuro. Nelle scelte di rilievo costituente vince veramente solo chi riesce a proporre la sintesi più convincente del passato di tutti».
Lei che è un padre fondatore dell’Ulivo come si pronuncerà?
«E me lo chiede? Per il Sì. E non solo perchè riconosco nella Riforma quasi alla lettera, (penso per tutte alla tesi n.4 sul bicameralismo), le principali tesi che Romano Prodi propose alla coalizione dell’Ulivo. Ma perchè sento l’eco dell’ambizione di fondo di quel progetto. Fare della nostra democrazia una democrazia che decide e coinvolge direttamente i cittadini nelle scelte di governo e nella scelta di chi lo guida: non più soltanto una democrazia che si limita a rappresentarli, delegando i partiti a decidere poi in Parlamento cosa fare dei voti raccolti».
Una riforma ulivista?
«Anche la nostra non fu una storia che partiva da zero. Prodi mobilitò entusiasmi e speranze preesistenti, che si erano appena manifestate nel movimento per le riforme istituzionali guidato da Segni, e portò ad una nuova sintesi proposte che erano andate maturando a partire dal crescente riconoscimento che la missione dei partiti del dopoguerra si era compiuta».
Una riforma che mette comunque fine al problema della chiusura della transizione che l’Ulivo intendeva risolvere?
«Solo in parte. Come la stessa Boschi ha riconosciuto è infatti difficile dimenticare i compromessi che ne sono all’origine o non vederne i limiti e le contraddizioni che è destinata ad aprire. Ma il Sì manterrebbe almeno aperto quel cammino di “cambiamento nella continuità” che intensificammo dopo la caduta del Muro di Berlino. Mentre la vittoria del No ci riporterebbe alla casella di partenza. Altro che riforme alternative. Prima di riuscire a riparlare di Riforme passerebbero un altro po’ di decenni. E intanto quei poteri che vorremmo garantire ad un Parlamento già oggi abbondantemente esautorato continuerebbero a trasferirsi dal Governo interno alle forze che ci guidano dall’esterno».