Arturo Parisi è stato lo stratega dell’Ulivo, la coalizione da cui è nato il Pd. Insomma, è uno che di miscele politiche se ne intende. Ma su quella che ha dato vita al governo Conte mostra più di un dubbio. «Troppe promesse a elettorati troppo diversi tra loro. Troppe contraddizioni – dice l’ex ministro –. Se mi avesse chiesto giovedì le avrei risposto che non riuscivo proprio a capire come potesse venire alla luce».
Invece, Conte ha già giurato al Quirinale.
«Mi sono sbagliato. Ho sottovalutato la determinazione delle due parti ad andare finalmente al governo. A tutti i costi. Quella di chi il potere lo frequenta ormai da decenni, ma ancor di più quella di chi si era già stancato di limitarsi a desiderarlo».
Che ne pensa dell’alleanza tra il M5s e la Lega?
«Alleanza? Tutto ci ha detto Di Maio per definire il loro rapporto all’infuori che una alleanza. Non foss’altro perché sulla rete girava un montaggio virale che cantava a due voci alternate e contrapposte ancora fresche di registrazione l’impossibilità di una alleanza tra i due. Diciamo al massimo un “contratto” su un programma impraticabile anche se raccontato come il leader di tutto e di tutti. E tuttavia un governo fondato su un compromesso politico è stato una soluzione migliore della resa a un governo tecnico. Soprattutto per il modo in cui ci stavamo arrivando. Null’altro che un rinvio, il riconoscimento della impotenza della nostra democrazia».
Quali sono i maggiori rischi per l’Italia da un incontro tra forze così diverse?
«Da una parte la crescita del debito pubblico conseguente alla impennata dell’aumento delle spese e delle mancate entrate. Dall’altra la spinta a forzare unilateralmente le regole esistenti – quelle che ci siamo dati da soli e quelle che abbiamo accettato da fuori – prima di porre e ottenere un loro cambiamento. Mi fermo qua. Il resto è risaputo».
Lei ha guidato la Difesa: conosce la ministra Trenta?
«I nostri percorsi si sono incrociati in Iraq mentre io, nel rispetto degli impegni presi con gli elettori, guidavo da ministro il rientro del nostro contingente e lei prestava la sua opera di consigliere a sostegno dell’intervento italiano a Nassiriya».
Lei è stato l’ultimo ministro sardo: rapporti con Savona?
«Sul piano personale inesistenti. Quando ero ragazzo Cagliari distava da Sassari molto di più di oggi, ancor di più il mondo della sua finanza distava e dista dalla mia sociologia. Quanto alla politica io mi sono affacciato dentro mentre lui già si tirava fuori. L’ho incrociato solo in occasioni pubbliche. E me ne rammarico perché di lui ho sentito parlare sempre con rispetto».
Ha fatto bene Mattarella a stoppare Savona?
«Nella misura in cui la sua nomina era associata a un preciso messaggio ha fatto bene a porre con forza il problema. Tuttavia come Padoan ha detto il problema era il programma non la persona in sé. Non lo vedo risolto».
Che tipo di opposizione si aspetta dal Pd?
«Perché una democrazia possa funzionare il cittadino deve disporre di una alternativa all’esistente. Senza di essa la sua scelta è impossibile e la democrazia si blocca. Questa è l’urgenza: l’elaborazione e la costruzione di un’alternativa sul piano culturale e politico. Opposizione è poco. Addirittura nulla se ci si limitasse a una guerriglia di no contro il governo che nasce».
E cosa deve fare il centrosinistra per provare a ripartire?
«Prendere consapevolezza dell’enormità di quello che è avvenuto. E soprattutto del suo enorme ritardo nel vedere e intercettare il cambiamento della società. Quando nel precipitare a valle l’acqua non trova i canali adeguati e anzi soltanto chiusure e sbarramenti la strada se la cerca da sola, in forme inevitabilmente torrentizie, prima di dilagare a valle».