«Nell’isola il partito appare come una macchina per il potere E la lotta per la spartizione delle cariche lo sta logorando»
di Pier Giorgio Pinna
ROMA. «Prodi è rimasto dilaniato in una resa di conti all’interno del Pd». Solitamente moderato nei toni, stavolta Arturo Parisi non ricorre a mezze misure. Anzi, per descrivere lo sfascio nel centrosinistra, usa accenti sferzanti. Ma ci sarebbe stato forse da stupirsi del contrario. Sassarese, 72 anni, docente di Sociologia dei fenomeni politici, l’ex ministro della Difesa è stato per lungo tempo a fianco di Prodi. Insieme hanno fondato l’Ulivo, che sin dal nome evocava la solidità di certe radici, con un richiamo simbolico alle campagne del nordovest sardo.
Che cosa succederà con il Napolitano-bis?
«Vedremo. Quello di Napolitano è stato certo un gesto generoso. Ma questo passaggio costituisce anche la prova definitiva della crisi del Paese e la misura delle contraddizioni del partito che ha la maggioranza legale».
Elezioni o un governo subito? E di quale tipo?
«Non credo ci sia alternativa a un Governo del Presidente, un governo che consenta la definizione di nuove regole e ci porti a nuove elezioni. Abbiamo perso in modo inutile due mesi preziosi. Bastava che la sera del voto Bersani avesse semplicemente riconosciuto la fine del film insensato che si era fatto alla vigilia».
Quali le responsabilità dietro il naufragio della candidatura Prodi?
«La prima responsabilità è di chi in questi anni ha impedito la nascita di un Pd come partito nuovo e unito: né la continuazione né la somma di quelli passati».
E poi?
«Esistono le responsabilità di quelli che tutti i giorni hanno lavorato, e continuano a lavorare, perché il partito sia nient’altro che una somma di gruppi dirigenti impegnati nella spartizione della cosa comune. Si potrebbe dire che è sempre stato così…».
Invece?
«Invece non è accettabile che dei dirigenti politici non riescano a capire che l’interesse comune viene prima di quelli di parte, che prima dei partiti viene la Repubblica, prima delle correnti il partito».
C’ è stata l’influenza di vecchi conti in sospeso tra ex Margherita ed ex Ds?
«Tutto arriva proprio da lì. Dall’idea che il Pd non fosse altro che la continuazione della storia antica della sinistra, interpretata dal gruppo dirigente ds coadiuvato dall’apporto di una componente dc, un apporto subalterno ma allo stesso esigente. Questa è stata l’essenza della teoria di D’Alema, e la base della prassi che ha governato il centrosinistra negli ultimi 20 anni».
Con quali conseguenze?
«In nome di questo patto, come compensazione della conquista di Palazzo Chigi, si è immaginato nel 1998 l’elezione di Marini al Quirinale, e giovedì, dopo 15 anni, il suo ritorno in campo. Si è ignorata la quantità di cittadini che non si riconoscevano in nessuna delle due storie. Una quantità che all’inizio era già enorme, ma che dopo altri 20 anni è diventata incontenibile».
Resta qualcosa, in questa catastrofe del centrosinistra, di quell’esperienza dell’Ulivo voluta da lei e da Prodi?
«Due foglioline d’Ulivo nel simbolo del Pd. E poco più. Quello che venerdì è mancato non è il riconoscimento di Prodi come esponente di una terza cultura».
No? E allora?
«Il fatto che il progetto per il futuro della “Italia che vogliamo”, come allora dicemmo, viene prima di tutte le appartenenze passate. Che è a partire da lì che avremmo dovuto operare la scelta del presidente della Repubblica, chiave di volta del sistema. Adesso l’Ulivo non c’entrava nulla: al centro della scelta stava l’Italia, la necessità di cercare una figura che guidasse il Paese dentro la crisi europea».
Non si è avuta la sensazione che abbiano prevalso le attenzioni verso i problemi collettivi.
«Esatto. Così come la candidatura di Prodi è stata cercata per risolvere i problemi del Partito democratico, per evitare la loro soluzione è stata affondata. Pochi sono invece quelli che hanno pensato al Paese».
Le divisioni nel Pd sono più forti nell’isola o le forze del centrosinistra in Sardegna si allineano sullo stesso fronte di Caporetto?
«In Sardegna il panorama interno è più complesso e variegato che altrove. Non posso dire purtroppo lo stesso della logica che lo guida. Nell’isola di Berlinguer il partito è pensato più che mai come una macchina per l’occupazione del potere economico e sociale, e sempre più logorato all’interno dalla lotta per la spartizione delle cariche».
Per quali ragioni lo sostiene? Si riferisce a qualche caso particolare?
«Non credo che ci sia bisogno di fare esempi. I lettori che hanno seguito sulla Nuova Sardegna le mie inutili denunce ne scorgono ora gli effetti. I dirigenti del Pd pensavano che i cittadini non vedessero e alla lunga dimenticassero. L’esplosione del voto a favore del M5S ha dimostrato l’opposto».
Che cosa le ha detto Prodi dal Mali dopo il voto di venerdì pomeriggio?
«Cosa vuole che mi abbia detto? I numeri parlavano da soli. Già aveva accettato con riluttanza di tornare nella lotta politica, e con riluttanza accettato l’invito di Bersani di dare una mano al Pd e al Paese. Si è trovato invece coinvolto in una ennesima resa di conti. Nella quale troppi erano quelli che invece di preoccuparsi dell’Italia si chiedevano che cosa avrebbero guadagnato o perso dalla sua elezione».
Per il centrosinistra qualcuno ha parlato di movimenti che divorano i propri fondatori: condivide quest’analisi?
«Come negarla? In un giorno nel quale escono contemporaneamente sconfitti Prodi, D’Alema e Marini, assieme al segretario e alla presidente del partito. E tutto in un passaggio dove il Pd ha allo stesso tempo meno voti di quelli raccolti dal Pci l’ultima volta che si presentò alle elezioni col suo antico nome, e un numero di seggi comparabili solo con quelli raccolti dalla Dc nel 1948».
Invece il Pdl?
«Berlusconi occupa di nuovo il centro della scena: proprio un bel risultato. Era quello che vedevo, e temevo, quando decisi di non ricandidarmi al Parlamento e prima ancora quando ho contrastato nelle cosiddette primarie l’ elezione di Bersani. Ma non sarei mai riuscito a immaginare un disastro di simili dimensioni».
Il centrosinistra potrà riprendersi da questo suicidio?
«E come potrebbe essere altrimenti? Potremmo mai lasciare l’Italia nelle mani di Berlusconi? Certo che si deve riprendere: in una radicale discontinuità col passato».
Già, ma in che modo?
«Non vorrei che qualcuno pensasse di cavarsela con la sostituzione di Bersani. La responsabilità del segretario è stata aver scelto di parlare esclusivamente ai “progressisti”, essersi accontentato di arrivare primo, aver puntato a essere il partito meno piccolo scommettendo sulla forza che gli avrebbe dato il Porcellum».
Ma che cosa dovrebbero fare adesso i successori?
«Bisogna ripartire dai cittadini reali, Bersani o non Bersani. Chiunque dimenticasse che la democrazia si fonda sulla conquista dei cuori e delle menti della maggioranza di loro non può che rendere più grave il disastro».