Ministro Parisi, da poco più di un mese lei è alla guida della Difesa. È già stato sia in Iraq che in Afghanistan. Che idea ha potuto farsi dei problemi che l’Italia fronteggia nelle sue missioni all’estero?
«Devo dire che, benché l’attenzione sia concentrata su alcuni teatri (Iraq, Afghanistan, Balcani), noi partecipiamo a ben 28 missioni in 19 diversi Paesi. Ciò dà la misura del coinvolgimento italiano in quello che chiamerei il governo del mondo. In questo ambito abbiamo fatto e stiamo facendo la nostra parte. Dire questo non significa identificare il governo del mondo con i problemi della sicurezza, ma certo la sicurezza è una dimensione di rilievo, che non può essere delegata. Nell’ordinamento del mondo per cui noi lavoriamo la sicurezza è riconosciuta come una funzione, una risorsa ed un bene pubblico, e non può essere affidata ai privati. Le missioni vanno capite e collocate in questo contesto. Le alternative, che rifiutiamo, sono l’isolamento o la subalternità».
Secondo lei questo concetto di partecipazione al governo del mondo è accettato da tutti gli alleati di governo?
«Credo che la questione coinvolga piuttosto l’intera cultura nazionale. Il Paese nel suo complesso è tentato di non dare seguito, sul piano dell’assunzione di responsabilità, all’idea che esso ha di sé. Voglio dire che l’Italia si gloria di essere nel G-8, ma fatica a rendersi conto di ciò che ne deriva, cioè stenta ad accollarsi gli oneri che discendono da quell’importante riconoscimento. Dobbiamo lavorare perché questo senso di responsabilità si diffonda. Altri Paesi ne sono dotati, come residuo di una stagione passata, il colonialismo, quando singoli Paesi pretendevano però di dirigere il mondo con arroganza. Noi fortunatamente non abbiamo questa abitudine. Rischiamo però a volte di praticare il valore dell’articolo 11 della Costituzione, non come scelta positiva di impegno per la pace, ma in una valenza negativa, nel senso del disimpegno, dell’appartarsi. Il problema non riguarda il centrosinistra piu di quanto non riguardi il centrodestra. Anzi, è curioso che alcune forze politiche di sinistra tentate dal disimpegno, abbiano alle loro spalle una cultura internazionalista. Mentre è semmai il centrodestra a coltivare nel suo sistema simbolico un’enfasi nazionale o addirittura subnazionale. Noi dobbiamo respingere la tentazione isolazionista e naturalmente anche quella militarista, basata sull’idea che il governo del mondo si risolva in un puro esercizio della forza, ancorché legittima».
Veniamo alle singole questioni. Che futuro ha la nostra missione in Afghanistan. Continua come è ora? Si amplia?
«Per definire il nostro impegno in Afghanistan ho usato e riusato, sino al punto da farli apparire quasi un mantra, due sostantivi: continuità e condivisione. Rispetto a cosa? Agli impegni assunti all’interno di un sistema di alleanze, che va ridefinendosi e che trova espressione nella Nato, attraverso il quale tutta l’Europa si fa carico della stabilità e della sicurezza in parti del mondo che un tempo immaginavano lontane da noi. Una presenza sollecitata dall’esigenza della lotta al terrorismo, perché da lì son partite iniziative, ma giustificata dalla necessità di favorire la costruzione di un ordine stabile fondato sulla legalità e sulla democrazia e di contrastare una regressione del sistema sociale di tipo medievale. L’instabilità in quella regione non è compatibile con l’indifferenza. Questo richiede una nostra presenza certo militare, ma in un contesto multidimensionale nel quale quel tipo di impegno si ponga a garanzia di un intervento di tipo civile».
Questo significa esportare la democrazia?
«Se vuole. Ma con atteggiamento di rispetto e non di imposizione, preoccupati soprattutto dell’affermazione del principio di legalità. Noi ci facciamo carico delle condizioni minimali di ciò che si chiama democrazia, consapevoli che le procedure democratiche possono portare, con il prevalere di certi partiti, ad esiti che sembrano nell’immediato contrastanti con la democrazia stessa. Sicuri però che la democrazia è capace di autocorreggersi».
In un dibattito a distanza con Furio Colombo sulle colonne dell’Unità, Gino Strada ha espresso una visione pessimistica della situazione afghana, dove, lui dice, addirittura molti cittadini oggi si augurano il ritorno dei talebani. Cosa ne pensa?
«Trovandomi a Kabul ho voluto personalmente esprimergli la mia stima per la sua testimonianza attiva di pietà e di solidarietà. Lui è lì a ricordarci la necessità di difenderci dalle illusioni. Innanzitutto l’illusione che i problemi possono essere risolti attraverso l’uso della forza. Guai però se traducessimo questo in una resa alla violenza ingiusta. Anche se non mi sento di condividere tutte le posizioni di Strada, mi sento impegnato a difendere la sua esperienza e a farne patrimonio».
Noi siamo parte dell’Isaf, missione internazionale a guida Nato, che ha un carattere di peace-keeping, ben diverso dalle operazioni dell’Enduring Freedom americana. E tuttavia l’estensione a nuove zone dell’Afghanistan, sta portando l’Isaf ad operare in teatri molto simili a quelli di Enduring Freedom, ad esempio nelle province meridionali in cui i talebani sembrano alla riscossa. Lei può affermare che gli italiani resteranno a Kabul e Herat, e non verranno mandati anche in quelle zone?
«Noi rimaniamo e continuiamo ad operare là dove già siamo, cioè a Kabul e nella regione Ovest, quella di Herat. Sono due realtà diverse. Kabul porta su di sè i segni evidenti di 23 anni di guerra. Herat è una città viva che trasmette subito l’attesa di tempi migliori. Sono le zone in cui ci siamo impegnati a stare, ma non perché lì il compito sia più facile. Del resto ciò non ci impedisce di ignorare che l’Isaf nel suo insieme interviene anche in aree dove si fronteggiano pericoli, o potenziali pericoli, maggiori. Per noi valgono due principi: continuità dell’impegno e condivisione delle responsabilità. Siamo consapevoli dei rischi, ma non crediamo si possa affrontare la questione in modo unilaterale, e né decidere che poiché la situazione si fa pericolosa possiamo scappare o abbandonare per questo solo motivo afgani ed alleati. Non siamo nemmeno lì per fare gli eroi. Dobbiamo mettere in comune con gli altri le nostre valutazioni e prendere assieme le decisioni. Sedendoci intorno al tavolo comune, riconosciuti dagli altri come componente seria e adulta di un’alleanza amplissima che in Afghanistan ha al centro
Ci sono pressioni Usa per un nostro maggiore coinvolgimento in Afghanistan, quasi a compensare il ritiro dall’Iraq?
«Sono due vicende del tutto distinte del tutto diverse che vanno tenute distinte. Se per caso mi fosse arrivata una simile richiesta, l’avrei ritenuta inaccettabile, proprio perché sbagliato ne sarebbe stato il presupposto. Sull’Iraq noi e gli Usa abbiamo punti di vista diversi, e quindi solo partendo dalle nostre autonome convinzioni possiamo confrontarci con loro. Nel nostro recente colloquio a Bruxelless, Rumsfield disse solo che l’impegno americano sarebbe continuato come prima e aggiunse con rispetto che ogni Paese ha il diritto di fare le sue scelte».
Torniamo all’Afghanistan. Manderemo nuove truppe?
«Per definire la consistenza futura del nostro contingente, ho preferito definirlo “analoga”. Questo perché prevediamo di mantenere sostanzialmente identica, e anzi tendenzialmente minore, la quantità del personale impegnato. Nel decreto del primo semestre il totale delle unità impegnate in Afghanistan era fissato a 2852. Una cifra che non va confusa con il personale presente, che varia invece nel tempo, e che all’ultima data rilevata, ammontava a 1843. Il carattere di continuità del nostro impegno non significa dunque né ridimensionamento né potenziamento. Qualche giorno fa ho usato una formula che qualcuno ha percepito come forte nel contenuto e aggressiva nella forma: non rientreremo a metà dall’Iraq, non rimarremo a metà in Afghanistan. Me ne dispiace. Ma l’impegno pubblico in una situazione di rischio è tale da scoraggiare le vie di mezzo. Quindi, o si resta, o si torna. Da Nassiriya e da Antica Babilonia torniamo. In condizioni di sicurezza per noi e per gli iracheni, e nella dignità. In Afghanistan la mia proposta al governo è di proporre nella sua collegialità al Parlamento, una decisione che va nella direzione opposta, quella di restare».
Via tutti dall’Iraq, salvo qualche eccezione?
«No. Voglio essere chiaro. In Iraq la nostra partecipazione ad Antica Babilonia, un’iniziativa promossa dalla cosiddetta coalizione dei volenterosi, si conclude. Ciò non significa che ci disinteressiamo dell’Iraq e che non sosteniamo altre iniziative diverse da quella. Fra queste, la formazione dei quadri delle forze di sicurezza irachene, affidata dalla Nato, cui parteciperemo con alcune decine di istruttori a Baghdad. Senza compiti di sicurezza, ma di training».
Il ritiro, è stato detto, avverrà entro l’autunno. Settembre, ottobre, novembre, dicembre?
«A questa domanda rispondo ancora una volta richiamandomi alla logica cui ci atteniamo, che è quella di assicurare che il rientro, un’operazione logistica implicante un trasferimento di responsabilità, non crei vuoti di potere, non comporti rischi ulteriori per i nostri soldati e per gli iracheni. Se noi pensassimo che si trattasse di un’operazione non solo autonoma dal punto di vista decisionale, ma unilaterale sul piano esecutivo, potrei dettare dei tempi. Invece siamo impegnati a effettuare il rientro in accordo con tutte le parti interessate, cioè il governo iracheno, a cominciare dalle autorità militari britanniche e anche quelle romene, visto che all’interno della nostra brigata i romeni sono presenti assieme a noi con due compagnie».
Per rifinanziare le varie missioni siete orientati a varare un unico decreto?
«Sì l’potesi è di un unico decreto, che sarà approvato in uno dei prossimi due Consigli dei ministri, in tempo per la scadenza del 30 giugno, per essere poi sottoposto al voto del Parlamento. Il decreto finanzierà il rientro da Nassiriya e tutte le altre missioni in cui siamo coinvolti ».
Come pensate di conciliare le diverse opinioni all’interno della maggioranza su questi temi?
«Mi sono impegnato a spiegare a tutte le componenti della coalizione il senso di una scelta coerente con il programma dell’Unione. Sappiamo che nella coalizione ci sono sensibilità e storie diverse rispetto alle singole missioni. Confido che il voto si fondi su una condivisione degli obiettivi e non su una necessità contingente. Ogni ora che mi attende sarà dedicata a spiegarmi ed a spiegare. Il paese ha bisogno di una coalizione di governo che rispetto alla difesa della pace in Italia e nel mondo sia unita da obiettivi condivisi».
Se questa opera di spiegazione e di convincimento lasciasse degli spazi aperti, porrete la fiducia?
«È solo una delle strade disponibili. Il voto di fiducia a volte serve per accelerare i tempi, altre volte deriva dalla necessità di interpellare in modo stringente tutte le forze della maggioranza. Spero tuttavia che, se sarà necessario, nasca solo da necessità procedurali».
Come verrebbero accolti eventuali apporti di voti da altre forze esterne alla maggioranza?
«Il campo della politica estera chiama ad una condivisione più ampia di quella definita dalla maggioranza di governo, al limite estesa all’intero schieramento parlamentare. Ma è mia convinzione profonda che la coalizione di governo deve essere capace di affrontare con le sue forze le scelte principali.».
Quindi tutt’al più quei voti potrebbero sommarsi a quelli della maggioranza?
«Sì, ma lo dico in modo rispettoso e non sprezzante. Non è un “se volete, aggiungetevi”. È chiaro infatti che siamo interessati innanzitutto a che la coalizione di governo si dimostri capace di governare unita i temi principali. E le missioni all’estero sono certamente uno di questi ».