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29 Settembre 2013

PARISI: “LETTA COME PRODI NEL ’98 HA SCELTO LA SFIDA ALLA LUCE DEL SOLE” di Barbara Jerkov, il Messaggero

Nell’aut aut di Letta al Pdl, c’è chi ha rivisto i famosi tre No di Prodi del ‘98 quando D’Alema gli disse: accetta i voti di Cossiga e non andare a chiedere la fiducia alla Camera. Condivide questa somiglianza professor Parisi?In comune con quel passaggio sta la decisione di Letta, coraggiosa, disperata, e doverosa, di chiedere la fiducia in Parlamento alla luce del sole senza essersi assicurato prima di poterne disporre. Ci sono comunque momenti nei quali, al di là dei diversi contesti, è la condivisione degli stessi valori che richiede lo stesso atteggiamento. Costi quel che costi. A tanti anni di distanza, lei che in quei giorni era al fianco di Prodi a palazzo Chigi, pensa che fu un errore andare a sfidare l’aula chiedendo la conta?Sfidare l’aula? Se sfida fu, fu alla democrazia dei partiti, alla regola che affidava ogni decisione ai capipartito e riservava al Parlamento solo il compito di formalizzarle successivamente. Secondo quella regola a chi non disponeva già del consenso dei capipartito non restava che recarsi dal Presidente della Repubblica per rassegnare le dimissioni senza inutili verifiche. Se nonostante l’incertezza del risultato, si decise di andare in Parlamento, prima che per contestare nei fatti una regola che pensavamo dovesse essere superata, fu per ricordare che il consenso al primo governo dell’Ulivo, era stato chiesto, ottenuto, e sancito dal voto dei cittadini. Come difronte ai cittadini era nato, difronte ai cittadini e alla luce del sole quel governo doveva perciò vivere o morire. Nonostante il risultato infausto? Anche se dagli uomini di partito quella scelta continuò ad essere definita, in sè e nella sua conduzione, un errore da dilettanti, è grazie ad essa che il nostro progetto di democrazia governante ha continuato a vivere soprattutto nei comuni, e, con l’aiuto delle primarie, la talpa nata con i referendum istituzionali dei primi anni ’90 continua a scavare.Certo, è disperante che dopo ventanni, non siamo ancora riusciti a raggiunge l’altra sponda, ma indietro non sono ancora riusciti a farci tornare. Vedrà che prima o poi ci arriveremo. Anche nel 2008, di fronte alle fibrillazioni continue in Senato, Prodi ripetè ancora una volta: mi devono sfiduciare in Parlamento. Ancora una volta le stesse parole con le quali ha esordito Letta.Sì. L’accento era lo stesso. Ma la voce purtroppo non poteva avere la stessa forza. Dietro Letta non stava infatti lo stesso mandato, la stessa speranza e la stessa passione che nel 1996 e nel 2006 era alle spalle di Prodi. Nè la sua personale designazione, nè il suo governo, e neppure la maggioranza che in questi mesi lo ha sostenuto, si erano formati o affermati tra gli elettori. Anzi. In questo stava la sua fatica, e i suoi meriti. A suo giudizio, cosa si dovrebbe fare ora per superare questo passaggio? O la fine delle larghe intese era già nei fatti irrimediabile?Riconoscere innanzitutto che il progetto, che Letta aveva pensato, anche se mai dichiarato, non disponeva della forza che sarebbe stata necessaria alla sua realizzazione. Di conseguenza si sarebbe dovuto o ridimensionare radicalmente il progetto o invece cercare la forza che mancava. Come ho spiegato da tempo, anche a me come a Capotosti, che le ha illustrate ieri sul vostro giornale, due apparivano le alternative teoriche a noi difronte. O raccogliere una maggioranza ristretta anche se eterogenea per un governo di scopo, che approvi in tempi brevi una nuova legge elettorale, ancorchè provvisoria, e la legge di stabilità, per tornare al voto al più presto, come mi ero permesso di suggerire a febbraio. O invece, applicarsi, a dar vita a quel governo più ampio e più lungo che si era dato per nato.A questo punto è stato ancora una volta Berlusconi a decidere per tutti togliendo dal tavolo la seconda alternativa. Per capire come siamo finiti, sarebbe bastato peraltro guardare alla procedura con la quale l’SPD procede in questi giorni in Germania a varare la “grosse koalition”, in un Paese nel quale questa non è certo una formula nuova, nè nuovi, nè finti sono i partiti che ad essa danno vita. Prima trattative vere e proprie varate alla luce del sole. Poi un congresso ristretto che le ratifichi. Quindi una consultazione sugli accordi dei 470.000 iscritti, e infine, il 14 novembre il congresso regolare del Partito. Come meravigliarsi se, pensando al modo in cui sei mesi fa è stata varata la nostra “grosse koalition”, le nostre “grandi intese” si siano presto rivelate le “profonde divisioni” di sempre. Con Berlusconi contro i suoi giudici, le dimissioni di massa, come in Grecia con Alba Dorata, e il Ministro della Polizia silente mentre i suoi gridavano al “colpo di stato”. Il Pd si è almeno apparentemente ricompattato di fronte all’emergenza. La convince questa unità?Ad essa dobbiamo comunque aggrapparci con l’ottimismo della volontà come ad una delle poche cose che restano. Alla capacità del partito di vivere questa unità nella pluralità e nella libertà. Al senso di responsabilità dei suoi dirigenti, alla sua disponibilità a far rete con le altre forze di buona volontà per la salvezza del Paese. In politica come nella vita più che continuare dobbiamo riiniziare ogni giorno.