Quando era stato approvato il Rosatellum, Arturo Parisi, fondatore dell’Ulivo, ministro della Difesa del Prodi II, l’aveva presa malissimo. Lui, storico sostenitore del maggioritario, non poteva digerire una legge prevalentemente proporzionalista: «Ero a lutto, soprattutto per il boato con cui dai banchi del Pd alla Camera era stata accolta l’approvazione», ha ricordato anche nei giorni scorsi.
Anche perché, del Partito democratico, Parisi fu uno dei fondatori.
Ora che la campagna elettorale è entrata nel vivo, il professore (è sociologo dei fenomeni politici) è una voce da sentire, anche perché in questi giorni è tornato a parlare, e a far parlare, Romano Prodi, al quale Parisi è ancora molto vicino e di cui fu anche sottosegretario a Palazzo Chigi, durante il primo esecutivo.
Domanda. Professore, molte critiche hanno accompagnato le candidatura Pd. Non tutte genuine. La sua – «è diventato un partito presidenzialista» – è stata certamente la più interessante. Questa mutazione è solo legata alla figura di Matteo Renzi o è qualcosa di più ampio?
Risposta. Che il Pd non corrisponda al partito di rappresentanza di massa della tradizione con la solida struttura organizzativa radicata nel territorio, la larga base di iscritti, e la forma burocratica che ha caratterizzato il Pci nel secolo passato, mi sembra fuori discussione. Ed è anche fuori discussione
D. Ed è anche fuori discussione?
R. La discontinuità con la tradizione politica che, a lungo, ha prima identificato la sinistra col Pci e, poi alimentato la pretesa di egemonia sull’intero campo di centrosinistra. Ma da qui a dirlo un partito personale, di proprietà e a disposizione del capo, come l’aggregazione politica messa in campo ventiquattro anni fa da Silvio Berlusconi, ce ne passa. E molto.
D. Come spiegare allora il successo della definizione che definisce il Pd come «il Partito di Renzi»?
R. Per come è utilizzata nella quotidianità, è una formula troppo brillante per nascondere l’intenzione che ne ispira l’uso. Quella che voleva essere una categoria analitica è diventata ormai uno strumento di polemica politica.
D. Eppure, il successo, qualcosa sta pure a significare.
R. Dire «Partito di Renzi» sta a riconoscere che è Renzi ad avere impresso una accelerazione al processo di trasformazione della forma partito che ha a lungo dominato il nostro Paese e, in particolare, il campo di sinistra. Una accelerazione, ripeto. Ma il processo è un processo, che ha attraversato almeno mezzo secolo.
D. Spieghiamolo bene.
R. Prima con la dissoluzione della forma partito tradizionale, aperta dal ’68, e che, attraverso gli anni 70 e 80, è culminata nello scontro Bettino Craxi-Ciriaco De Mita.
D. Poi?
R. Poi con l’affermazione delle nuove dinamiche aperte all’inizio degli anni 90 dal movimento per le riforme istituzionali, che ha introdotto il maggioritario e l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle regioni. E infine, nel decennio passato, con la fondazione dei nuovi partiti e l’introduzione delle primarie.
D. Un processo lungo e complesso. Possiamo dirlo almeno concluso?
R. Mi piacerebbe risponderle sì. Ma la dura sconfitta nel referendum del 2016 e, aggiungo, il modo nel quale, nell’anno che è seguito, si è risposto a essa, con la resa finale alla nuova legge elettorale, mi fa temere per il futuro.
D. Perché professore?
R. Perché troppe sono le acquisizioni rimandate in soffitta! Dal ritorno al proporzionale, con tutte le sue conseguenze, all’abbandono delle primarie. Diciamo che della fase precedente qualcosa resta, a cominciare dall’assetto comunale e regionale. Ma non collegato con gli altri elementi del sistema che si andava delineando, è tutto a rischio. Non credo che la presidenzializzazione del partito
D. Ci siamo arrivati, dunque
R. Sì, intendo la concentrazione, cioè, nella figura apicale di tutti in poteri, dalla scelta dei parlamentari alla designazione dei candidati alla guida dei governi locali. Non credo che la presidenzializzazione del partito, dicevo, riesca a risolvere le contraddizioni e gli squilibri che si sono aperti.
D. Perché?
R. Perché accade nel momento in cui il venir meno del maggioritario priva della possibilità e della necessità della vittoria, e, assieme a questo, della giustificazione di una leadership e di un progetto per il governo del Paese che tenga assieme le parti. Qualsiasi potere, privato della sua principale giustificazione, rischia continuamente di regredire dal livello della autorità a quello della forza. Di apparire ed essere prepotente per reagire al rischio dell’impotenza.
D. Parliamo del Rosatellum, professore. So che non le piace questo sistema ampiamente proporzionalista, malgrado l’illusione lessicale data dai collegi, e anche lei riconosce che è figlio del 4 dicembre del 2016. Pensando a un altro 4, quello di marzo, cosa impedisce a Renzi e alla sua coalizione di riaggregare lo stesso 41% che votò per il Sì?
R. Lo impedisce il fatto che allora, come in tutti i referendum, si votò col maggioritario, scegliendo tra due alternative secche, il Sì e il No.
D. Il 4 marzo invece no
R. Eh, questa volta invece col proporzionale, le alternative sulla scheda sono molto, molto maggiori di due. Prima delle risposte, il maggioritario aggrega le proposte. Una volta intrapresa col proporzionale la strada della moltiplicazione delle proposte, è inevitabile che si frammentino anche le risposte.
D. Il fatto nuovo è Romano Prodi. La tenda pare rimontata vicino al Pd, anzi, a giudicare dai toni e dalle parole, c’è quasi un piede idealmente oltre il gradino del Nazareno. Secondo lei, che conosce bene l’uomo, che cosa è successo?
R. Lo dico per me e a modo mio.
D. Prego.
R. Penso sia successo quel che succede ad ognuno di noi, mano a mano che gli orientamenti son costretti a tradursi in scelte precise. Prima o poi si tiran le somme. E per quanto gli addendi negativi siano molti e pesanti, il totale dà ancora il risultato di sempre: centrosinistra. Ed aggiungo, più che mai Europa.
D. Laddove ha sempre guardato Prodi.
R. Che il favore di Prodi sia andato da sempre ad una aggregazione che nel campo di centrosinistra, fosse la più larga possibile e non invece a formazioni minoritarie e testimoniali, lo dice tutta la sua storia: quella passata, e quella recente. E a una coalizione che fosse, allo stesso tempo, la più unita attorno all’obiettivo, che di sicuro è quello centrale in questo momento storico: l’accettazione come italiani che si sentono europei della sfida che ci viene dal mondo attraverso l’unità dell’Europa.
D. La scelta era chiara, dice.
R. Qualcuno può forse sostenere che ci siano in campo aggregazioni che soddisfano queste condizioni meglio di quella che associa assieme le quattro liste che – ancorché di nuovo e con più di un trattino – potremmo definire un nuovo centrosinistra? Detto questo
D. Detto questo?
R. Resta il suo dispiacere per quanti si sono separati guidati da altre priorità è alla ricerca di alleanze non compatibili con quelle del momento.
D. Se, come lei dice, il Rosatellum è costruito per non far vincere nessuno che cosa succede il 5 marzo? Lei crede a queste insistite voci, anche dall’Estero, penso ai colloqui Junker-Berlusconi, che accreditano larghe intese senza le estreme?
R. All’estero e in Italia solo di questo si parla. Troppo e da troppo tempo. E soltanto il parlarne ci sta cambiando dentro. Cosa vuole che le dica?
D. Quel che pensa.
R. Penso che, se la politica è per eccellenza l’arte del compromesso tra il preferibile e il possibile, la prudenza ci inviterebbe a non mettere troppi limiti al possibile. Ma nella situazione nella quale ci siamo cacciati il rischio maggiore è che si perda del tutto di vista il preferibile diventando prigionieri soltanto del possibile.
D. Prospettiva amara, mi pare.
R. La conseguenza principale del venir meno del maggioritario, della stessa possibilità di conquistare il governo prima di ogni cosa, ci ha privati della possibilità di pensare un progetto che non siano quelle esercitazioni che chiamiamo programmi e sono al massimo idee per un programma.