Matteo Renzi ricomincia dal Lingotto di Torino, da venerdì a domenica prossima, presentando la sua mozione congressuale. Lo fa, però, nel momento in cui, contro di lui, s’è scatenata una bagarre mediatica per via di un’inchiesta che ne coinvolge il padre e il fidato Luca Lotti, ieri sottosegretario oggi ministro dello Sport.
Un’inchiesta apparsa a molti basata su elementi indiziari piuttosto deboli ma che molta stampa ha cavalcato con veemenza. Arturo Parisi ha sempre sostenuto Renzi fin dal 2011, calcando, lui over 70, il palco della Leopolda. A differenza di altri autorevoli supporter, alcuni dei quali oggi sono impegnati a defilarsi, Parisi non ha mai lesinato critiche a Renzi, specialmente nella gestione del Pd, partito che l’ex ministro della Difesa del Prodi II ha fondato.
Domanda. Professore, Renzi e il Pd. Molti i suggerimenti: ricostruirlo dal basso, ripartendo dai circoli oppure o, per contro, liquidarlo, fare altro, di fare veramente un Partito personale – anche Massimo D’Alema, provocatoriamente glielo dice. Lei che ne pensa?
Risposta. Penso che, se la preoccupazione è grande, la confusione è grandissima.
D. Spieghiamolo.
R. È a far chiarezza che serve appunto il dibattito di questi due mesi. Che abbiamo perso è sicuro. Ma qua rischiamo pure di perderci. E non è a Renzi che penso.
D. E a chi, se no?
R. Penso all’Italia e alla funzione del Pd.
D. Che Renzi abbia perso è chiaro a tutti.
R. Lo ha riconosciuto e ripete che ha perso lui. E purtroppo ha ragione, perché all’origine della sconfitta, stanno appunto i suoi gravi errori di valutazione e di condotta. Ma continua a personalizzare. Mi viene da piangere.
D. E perché?
R. Perché mi sento come un disco rotto, che si è bloccato alla mia ultima intervista prima del referendum: convinto e arrabbiato. Convinto che il Sì fosse la direzione giusta, arrabbiato nel vedere che stavamo andando a sbattere. Le ricerche empiriche dimostrano senza ombra di dubbio che la risposta degli italiani era Sì.
D. E allora?
R. Allora la domanda che ha deciso non era quella scritta sulla scheda, ma quella che i cittadini avevano in testa. E la risposta era No. Fin dall’inizio.
D. Quindi? Non un No alle riforme.
R. Certo, con buona pace dei vari Gustavo Zagrebelsky che, come mosche cocchiere, pensano di aver vinto il referendum alla guida del fronte fatto da Fi, Lega, FdI, e 5Stelle. Il Partito della Costituzione!
D. Il 4 dicembre, però, è il passato. Ora arriva un congresso Pd. A che può servire?
R. Guardi, l’ha detto appunto Gianni Cuperlo, alla riunione della Sinistra dem che ha lanciato la candidatura Andrea Orlando. E l’ha detto come sempre con chiarezza e onestà.
D. Ricordiamolo.
R. È la rotta, non chi sta al timone, al centro del congresso. E, facendo eco agli scissionisti, lo ha ripetuto lo stesso Orlando, sceso in campo per riportare nel partito le compagne e i compagni che se ne sono allontanati.
D. Ossia?
R. Ri-costruire il partito, dimenticare quella «cagata pazzesca» della sua natura aperta, e riportarlo a sinistra. Ecco una rotta chiara che merita di essere messa a confronto con l’idea di Renzi.
D. Professore, sarà pure così ma, al momento, più che a un confronto di idee e a una scelta tra rotte, quello a cui assistiamo è uno scontro di potere. Pensi allo scandalo delle tessere della scorsa settimana.
R. Si riferisce a Napoli e Caserta?
D. Esatto.
R. Almeno i casi sospetti fossero solo quelli. Casi gravissimi. Da combattere senza sosta, come ogni giorno puliamo la casa, sapendo che domani dovremo ripulirla da capo. Ma purtroppo non nuovi. Figli delle usanze passate, più che di quelle nuove.
D. È vero, di tessere ballerine ne ricordiamo molte.
R. Ah, se vuole le racconto le mie battaglie dello scorso decennio, dentro la Margherita, o se le piace di più dei miei studi sui Democristiani degli anni ’70.
D. Non c’è stato il tempo di scandalizzarsi di quegli episodi, perché è arrivata l’inchiesta Consip, il cui tempismo e le cui fughe di notizie hanno destato molte perplessità. Che ne pensa?
R. Quello che ha detto lei. Che non è bello leggere su Repubblica. L’ho ancora qua sul tavolo. Glielo lo rileggo?
D. Prego.
R. Addirittura in un titolo: «Il 5 dicembre dopo il referendum, il telefono di Renzi senior viene messo sotto controllo».
D. Appunto, che ne dice?
R. Che dobbiamo abituarci. Anche se svegliati nel pieno della notte, abituarci a rispondere «fino a prova contraria». E nel caso conservare l’articolo 27 della Costituzione sul comodino. Ripeto, dobbiamo abituarci. Senza dimenticare che, non solo la Rivoluzione, ma la competizione democratica non è un pranzo di gala. Ma troppo spesso la continuazione della guerra con altri mezzi.
D. Von Clausewitz torna sempre buono.
R. Lo so ma è bene che, chi si infila sotto la luce dei riflettori, se lo ricordi sempre. Soprattutto all’inizio. Uno può scegliere quale personaggio interpretare.
D. Del tipo?
R. Del tipo l’uomo del popolo, il «legge e ordine», il «patriota», il «dio e famiglia». Sappia però che da quel momento sarà compito dei suoi avversari misurare la distanza tra il suo personaggio e la sua persona. Si guardi in giro. Dalla Francia agli Usa, tra i partiti e dentro i partiti.
D. Il potere giudiziario e il poter politico molto mescolati, per usare un eufemismo. Montesquieu, adieu, fa anche di rima.
R. Può non piacere, ma è la democrazia. Per chi guarda la regola è non sorprendersi e non arrendersi mai al cinismo. Per chi agisce: come sempre: «Male non fare, paura non avere».
D. Ma, al di là di Renzi, che ci si gioca molto a questo congresso, che ne sarà del Pd, professore?
R. No. Non, al di là di Renzi. Visto che ha deciso di restare sulla scena e combattere, molto continua a dipendere da Renzi. Visto che, come lui ripete, il suo contributo è stato determinante nel produrre il danno. Tocca a lui spiegare come metterci rimedio.
D. A quale danno pensa?
R. A quello che si è prodotto il 4 dicembre. Quello che lui stesso aveva annunciato. Quello che sembra svolgersi sotto i nostri occhi, in modo che sembra inesorabile. Se l’avesse riconosciuto il 4 dicembre, rassegnando le dimissioni da segretario e aprendo quindi subito la stagione del congresso, l’avrebbero capito tutti.
D. Non è che abbia atteso molto.
R. Già, ma in quel momento era assolutamente evidente che si era aperta una questione politica. Il rinvio di tre mesi l’ha invece trasformata in una questione di date. Ora ritorna invece nella sua durezza rappresentata da un nome: Weimar.
D. Lo ripetono tutti.
R. Finirà che ci toccherà darlo come tema alla maturità. Come evitiamo Weimar? Come dare un governo al Paese ora che le riforme sono saltate?
D. Ma da qua alle elezioni c’è appunto di mezzo il Congresso.
R. Ci sarebbe di mezzo anche l’approvazione di una legge elettorale. Ma purtroppo nelle mozioni congressuali, tutte già proiettate sulle elezioni dell’anno venturo, non vedo risposte su cosa fare di questi mesi. E men che mai…
D. Men che mai?
R. Men che mai vedo all’opera nessuno dei riformatori anti renziani, che diano seguito alle promesse che avevano avanzato, per far presto e meglio quello che allora rifiutavano. E intanto le profezie più fosche si autoavverano giorno dopo giorno.
D. Quali?
R. Appunto Weimar. Visto che il ritorno fatale della proporzionale premia la divisione tanto vale dividersi. Partite in dieci, sono già 25 le sigle presenti in Parlamento. Più che una frammentazione è in corso una frantumazione, o, forse meglio, uno sfarinamento.
D. Per quanto la scissione sia ormai alle nostre spalle, il Pd sembra tuttavia tenere.
R. Alle nostre spalle? Certo, se guarda agli eventi la scissione è ormai consumata e a stare ai sondaggi sembrerebbe contenuta. Ma gli effetti a catena che, temevo avrebbe prodotto, sono in pieno corso.
D. Del tipo?
R. Iniziata all’insegna della Rivoluzione socialista e al canto di Bandiera Rossa, era inevitabile che, dentro il congresso Pd, qualcuno si sentisse chiamato a contrastare «da sinistra» la leadership di Renzi, parlando alle compagne e ai compagni tentati dall’uscita.
D. Scopo nobile, nel caso.
R. Ma la stessa logica che ha generato l’iniziativa di Orlando e Cuperlo non si è purtroppo fermata qua. Non riuscirei infatti a spiegare, se non con la necessità di riequilibrare a sua volta la candidatura di Orlando, la scelta di Renzi di affiancare a sé, in un irrituale ticket, non previsto dallo Statuto l’ex Ds, Maurizio Martina per il quale la mozione renziana «chiede un mandato» allo stesso titolo del segretario. Il guaio è che, una volta messo in moto, questo è un processo che può ha difficoltà ad arrestarsi. Non è un caso che, anche nelle sottocomponenti, sia difficile non riconoscere questa leadership duale.
D. Facciamo un esempio?
R. Mi è capitato di chiedermelo perfino di fronte alla lettera di Sergio Chiamparino e Giuseppe Sala che ieri ha interpellato Renzi su Repubblica. Purtroppo non il dualismo di oggi, 8 marzo, tra un uomo e una donna, e fortunatamente, almeno per ora, non più quello di ieri tra cattolici e laici, ma in nome di una frattura che il tempo tarda troppo a risanare.
D. Ha dunque ragione Angelo Panebianco, che ha recentemente definito la mancata fusione-integrazione delle due eredità politiche che sono all’origine del Pd, come il motivo vero della sua crisi?
R. Ha ragione nel dire che a fondare quel partito nuovo e unito, che era stato promesso – un partito che non doveva essere, né la continuazione né la somma di partiti passati – non c’è riuscita neppure una leadership come quella di Renzi. Una leadership così forte e trasgressiva delle tradizioni da aver spinto alcuni, penso a Ilvo Diamanti, a non trovare altro nome per definirlo che chiamarlo il Partito di Renzi. Quanto alle eredità fondative
D. Quanto alle eredità fondative?
R. L’unica distinzione riconoscibile è invece a mio parere tra Ds e «non Ds». Dove Ds sta per quanti sentono e rivendicano il carico della continuità di una storia e di una appartenenza, per quanti stanno sulla scena politica non solo col loro passato, ma a nome del proprio passato. Una distinzione che il Pd voleva superare e che invece vedo ora di nuovo in campo.
D. Non vorrà dirmi che è ancora a rischio il Pd?
R. Esattamente. Una volta intrapresa la strada della scomposizione tra supposte identità incoraggiata dal proporzionale, la conta delle porzioni che inizia come conta tra i partiti, è destinata a tradursi all’infinito al loro interno in una conta sempre più minuta che porta alla guida dei partiti non la maggioranza, ma, volta a volta, la maggioranza della maggioranza della maggioranza, cioè l’infima minoranza di essi. Come spiegare altrimenti questa voglia di contarsi. Sotto le bandiere dei valori e delle identità, ma con l’obiettivo dei posti.
D. Siamo alla fatidica domanda, professore: come se ne esce?
R. Ricominciando da capo. Dai problemi dei cittadini e dalla scelta diretta da parte dei cittadini di una proposta e di un governo che li possano risolvere. Siamo ancora in tempo. Che si riesca a ripristinare il Mattarellum, come Renzi «spera ma non pensa», o si debba scommettere sul raggiungimento del 40% previsto dal Consultellum per lucrare il premio di maggioranza, il primo passo è costruire un Pd unito attorno ad un mandato forte, il secondo la creazione di una coalizione. Altrimenti è come darsi appuntamento a Weimar.
D. Scopo nobile, nel caso.
R. Ma la stessa logica che ha generato l’iniziativa di Orlando e Cuperlo non si è purtroppo fermata qua. Non riuscirei infatti a spiegare, se non con la necessità di riequilibrare a sua volta la candidatura di Orlando, la scelta di Renzi di affiancare a sé, in un irrituale ticket, non previsto dallo Statuto l’ex Ds, Maurizio Martina per il quale la mozione renziana «chiede un mandato» allo stesso titolo del segretario. Il guaio è che, una volta messo in moto, questo è un processo che può ha difficoltà ad arrestarsi. Non è un caso che, anche nelle sottocomponenti, sia difficile non riconoscere questa leadership duale.
D. Facciamo un esempio?
R. Mi è capitato di chiedermelo perfino di fronte alla lettera di Sergio Chiamparino e Giuseppe Sala che ieri ha interpellato Renzi su Repubblica. Purtroppo non il dualismo di oggi, 8 marzo, tra un uomo e una donna, e fortunatamente, almeno per ora, non più quello di ieri tra cattolici e laici, ma in nome di una frattura che il tempo tarda troppo a risanare.
D. Ha dunque ragione Angelo Panebianco, che ha recentemente definito la mancata fusione-integrazione delle due eredità politiche che sono all’origine del Pd, come il motivo vero della sua crisi?
R. Ha ragione nel dire che a fondare quel partito nuovo e unito, che era stato promesso – un partito che non doveva essere, né la continuazione né la somma di partiti passati – non c’è riuscita neppure una leadership come quella di Renzi. Una leadership così forte e trasgressiva delle tradizioni da aver spinto alcuni, penso a Ilvo Diamanti, a non trovare altro nome per definirlo che chiamarlo il Partito di Renzi. Quanto alle eredità fondative
D. Quanto alle eredità fondative?
R. L’unica distinzione riconoscibile è invece a mio parere tra Ds e «non Ds». Dove Ds sta per quanti sentono e rivendicano il carico della continuità di una storia e di una appartenenza, per quanti stanno sulla scena politica non solo col loro passato, ma a nome del proprio passato. Una distinzione che il Pd voleva superare e che invece vedo ora di nuovo in campo.
D. Non vorrà dirmi che è ancora a rischio il Pd?
R. Esattamente. Una volta intrapresa la strada della scomposizione tra supposte identità incoraggiata dal proporzionale, la conta delle porzioni che inizia come conta tra i partiti, è destinata a tradursi all’infinito al loro interno in una conta sempre più minuta che porta alla guida dei partiti non la maggioranza, ma, volta a volta, la maggioranza della maggioranza della maggioranza, cioè l’infima minoranza di essi. Come spiegare altrimenti questa voglia di contarsi. Sotto le bandiere dei valori e delle identità, ma con l’obiettivo dei posti.
D. Siamo alla fatidica domanda, professore: come se ne esce?
R. Ricominciando da capo. Dai problemi dei cittadini e dalla scelta diretta da parte dei cittadini di una proposta e di un governo che li possano risolvere. Siamo ancora in tempo. Che si riesca a ripristinare il Mattarellum, come Renzi «spera ma non pensa», o si debba scommettere sul raggiungimento del 40% previsto dal Consultellum per lucrare il premio di maggioranza, il primo passo è costruire un Pd unito attorno ad un mandato forte, il secondo la creazione di una coalizione. Altrimenti è come darsi appuntamento a Weimar.