La Puglia, un disastro annunciato?
«Perché? Per me è il successo della
democrazia. Il disastro è che venga raccontato come una sconfitta del
Pd che, se anche non coincide con la democrazia, dovrebbe esserne
parente stretto».
Non è il Pd che si è messo nella condizione di pagarlo come tale?
«Dobbiamo ringraziare le anime sante
che hanno impedito che sulla scheda comparisse il simbolo del partito
accanto al nome del candidato. Altrimenti la scelta su chi doveva
guidare la coalizione rischiava di trasformarsi nella scelta sul
partito che dovesse farlo. Tutto ciò nasconde un’incomprensione,
diciamo pure una divergenza di fondo sull’idea di democrazia».
Per D’Alema prevale un’idea plebiscitaria della democrazia che espropria i partiti del loro ruolo…
«Il punto è l’indeterminatezza, la
mancata scelta – anche al cosiddetto congresso, che tutto è stato
tranne che un momento di scelta – tra le due linee che si confrontano
dal referendum del ’93. La linea restauratrice – finalizzata a
ricostruire la democrazia dei partiti – e quella riformatrice, che
raccoglie la domanda di partecipazione diretta dei cittadini. Con la
preoccupazione di tenere tutti insieme i restauratori hanno preferito
mascherarsi volta a volta dietro simboli e volti, i riformatori dietro
il nuovismo delle parole. È giunto il momento di decidere, altrimenti
la storia sceglie per noi se non proprio contro di noi».
Riproporre un nome già bocciato non segna una distanza siderale tra dirigenti e base? Davvero si pensava che Boccia vincesse?
«A sorprendere più che il risultato è
la misura. I dati dei comuni di protagonisti della vicenda pugliese
come D’Alema e Latorre sono al di là del bene e del male. La domanda è
come sia stato possibile tutto questo: è tutto così eccessivo che
neppure se lo avessimo organizzato a freddo si poteva fare di più».
Fino a che punto si può chiedere agli elettori di «allinearsi» ad una scelta politica?
«Sempre meno. Viceversa ho sentito
evocare categorie che appartengono a tempi così lontani da non apparire
oggi comprensibili: disciplina di partito, militarizzazione,
solidarietà. In una società in cui nella quale si è perso il rispetto
della fedeltà coniugale, dovrebbero invece reggere le fedeltà di
partito… I cittadini hanno imparato a pensare con la propria testa.
Dare per scontata la loro obbedienza più che una imprudenza potrebbe
essere presa per una provocazione».
Le categorie evocate per la Puglia, a Bologna non avrebbero dovuto impedire a Delbono di candidarsi?
«La vicenda è di carattere troppo
personale per parlarne alla leggera. Per restare in argomento, potremmo
dire che in una politica ad alto livello di personalizzazione, se le
primarie sono vere possono svolgere la funzione di test preventivo, che
metta personalmente alla prova i candidati prima dell’esame finale».
A Bologna non è stato così?
«Bologna può far conto su una
tradizione di solidarietà che può incoraggiare più che altrove la
comprensione reciproca su aspetti della vita delicati per tutti».
In altri tempi Delbono non
sarebbe stato candidato in nome di un rigore di cui, soprattutto a
Bologna, il partito era incarnazione.
«In quei tempi il partito rivendicava
un patrimonio di eticità di cui era geloso custode, preoccupato che
qualcuno lo mettesse a rischio. Allora i partiti erano accostati alle
chiese. In tempi di secolarizzazione, capita invece che oggi le chiese
siano accostate ai partiti».
Delbono ha fatto bene a dimettersi?
«La
notizia mi ha trovato assolutamente impreparato. Non dispongo di
elementi che mi consentano di giudicare la sua scelta. Posso solo
esprimere rispetto».