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13 Agosto 2006

L’Italia è pronta a far la propria parte

Fonte: Corriere della Sera

SANTA TERESA DI GALLURA  – “Siamo pronti a far parte della forza internazionale in Libano in maniera piena. La nostra non sarà una partecipazione dimezzata”, dice il ministro della Difesa Arturo Parisi. Ne parla fra telefonate con Prodi e D’Alema e nelle more di consultazioni coi capi militari.
Ministro, il premier israeliano Olmert ha chiesto, in un’intervista al nostro giornale, l’intervento di unità combattenti.
La missione non sarà certo una passeggiata. E’ prevedibile un impegno lungo e gravoso. L’Onu usa il termine interposizione. Ma mai come questa volta l’interposizione è così impegnativa. I nostri militari si troverebbero infatti a intervenire se non proprio fra due fuochi, almeno tra carboni che sono ancora ardenti. Ma chi potrebbe mai negare in una missione come questa quei tratti che la Costituzione ha affidato all’articolo 11:  il perseguimento della pace e il rifiuto attivo, ripeto, attivo della guerra? Quello che ci viene chiesto è ancora una volta di condividere all’interno dell’Onu la corresponsabilità del governo del mondo.

L’Italia si era offerta di guidare la forza internazionale?
Non abbiamo mai sgomitato per  il comando. La scelta che abbiamo difronte non è la guida della missione ma la disponibilità a una partecipazione piena. È in questi termini che il governo presenterà l’operazione al Parlamento. Con la consapevolezza che la nostra partecipazione non è appesantita da ricordi del passato ed è invece associata grazie alle qualità dei nostri soldati ad una cultura e ad una ispirazione di pace.

Non rischiate, a sinistra, l’opposizione di alcuni vostri alleati?
Confido proprio di no. La corrispondenza della missione ai principi ispiratori della politica estera della maggioranza, mi sembra infatti fuori discussione, a comiciare dal suo scopo finale: il raggiungimento e la difesa della pace. Non credo ci saranno esitazioni. Mi preoccupa di più la disponibilità di risorse economiche per il suo svolgimento. Non posso infatti dimenticare che soprattutto nella seconda fase della passata legislatura  la capacità operativa delle forze armate è stata gravemente messa in causa dai tagli operati dal ministro Tremonti. E’ bene che il Parlamento ne sia consapevole, dato che la missione sarà impegnativa anche dal punto di vista finanziario.

In pratica cosa faranno i militari della forza internazionale?
La risoluzione Onu è chiara: finora la missione Unifil aveva un compito di mera osservazione. Adesso viene disegnata una forza con un profilo attivo, non di semplice interposizione passiva, una forza chiamata a operare perché la pace sia mantenuta e conseguita anche attraverso iniziative attive contro chiunque la metta a rischio. È questo profilo che ci impone di scegliere il personale meglio addestrato per questo scopo e di mettere a sua disposizione dei mezzi adeguati.

Serviranno almeno 2 mila uomini?
Dei numeri non abbiamo ancora parlato. So solo, come ho detto, che i nostri devono essere capaci di svolgere un mandato che prevede la possibilità di reagire e rispondere a iniziative ostili. È evidente che debbano essere scelti in considerazione di questa esigenza. Non saranno guardalinee ma arbitri al centro del campo, attrezzati in modo da poter richiamare le parti all’ordine e in condizione di poter imporre il rispetto delle regole.

Afghanistan. E’ vero che ai soldati italiani può essere chiesto di andare al Sud a combattere i talebani?
Il senso di continuità delle istituzioni che ci guida ci chiama a farci carico degli impegni presi anche se non son stati presi dal nostro governo. Impegni che abbiamo rinnovato con gli alleati. Questi impegni prevedono che il nostro contingente sia presente nella regione di Kabul e nella regione ovest. A questi impegni e solo a questi impegni ci sentiamo legati.
Tuttavia il comando Isaf può chiedere l’intervento degli italiani a Sud.
Su questa questione si è fatta una inutile confusione. Quella che ci è stata chiesta è la disponibilità a una diversa dislocazione in caso di emergenze straordinarie. In nome della solidarietà che ci lega all’alleanza non ci è sembrato opportuno rispondere no e basta. Esamineremo le eventuali richieste in modo da valutare la straordinarietà delle situazioni. Dopodichè il governo, nella persona del ministro della Difesa, darà una risposta positiva o negativa nell’arco di 72 ore. Questo per un’emergenza straordinaria. Diverso è invece il caso delle operazioni in extremis, come salvare la vita di un soldato della coalizione. In quel caso a decidere saranno i comandanti guidati dalle ragioni della solidarietà e dal buonsenso.

C’è chi, come Marco Rizzo, del Pdci, chiede il ritiro dall’Afghanistan e il rafforzamento della difesa interna.

Son sicuro che anche Rizzo riconosce che il mondo è più che mai uno e i confini non sono oggi più identificabili con la geografia. Il pericolo si presenta spesso in angoli remoti e lì va affrontato anche se questo non significa certo necessariamente con la forza delle armi. Quanto al futuro quello che conta è che le decisioni non possono che essere condivise con gli alleati nella verità ma anche nella solidarietà. La missione in Afghanistan è una impresa comune dalla quale non possiamo immaginare di sganciarci in solitudine.

Però ogni sei mesi avrete il problema del voto sul rifinanziamento con conseguenti crisi nella maggioranza.
Guardi che in Parlamento il consenso è maggiore di quello che spesso appare grazie al senso di responsabilità e di corresponsabilità della classe politica che, nonostante tutto, guida le decisioni nella direzione che la ragionevolezza e il buonsenso suggerisce. Non possiamo tuttavia dimenticare che il Paese, cioè a dire spesso ognuno di noi, è ancora attraversato da tentazioni o illusioni isolazioniste. È su questo che bisogna lavorare. Maggioranza e opposizione devono rafforzare nell’opinione pubblica la cultura della difesa e della sicurezza, una cultura della quale il Paese non dispone ancora compiutamente.

Non teme che sul finanziamento delle missioni estere il governo possa cadere?
Io penso che il governo durerà fino alle prossime elezioni, e confido che esse si svolgano, come previsto, fra 5 anni. Se dovesse verificarsi una crisi di governo prima di quella scadenza, sarebbe a mio parere necessario rivolgersi di nuovo agli elettori. Questa è la mia concezione della democrazia. È per questo che, difronte a questo parlare ricorrente sull’ampliamento della maggioranza dico che l’errore è partire dalla quantità dei consensi invece che dalla qualità della proposta. Son sicuro che solo se approfondiremo, rafforzeremo, e svolgeremo la proposta contenuta nel mandato elettorale si potranno aggiungere consensi nuovi.

Può accadere da noi ciò che è avvenuto a Londra?
Certamente sì. Il fronte del terrorismo è infatti oggi globale, ma la scelta del luogo, del modo, e il vantaggio dell’iniziativa è nelle mani dei terroristi.

A Londra i servizi segreti hanno sventato un massacro. Da noi sono in piena crisi.
È una tesi che mi sento di contestare senza esitazione. In crisi solo perché è in corso una normale inchiesta giudiziaria? Questa sì che sarebbe una patologia: se a causa di una indagine in corso i servizi non fossero più in condizione di svolgere la loro attività e allo stesso tempo si trovassero privati della fiducia del governo.

Quindi il capo del Sismi Pollari ha la vostra fiducia?
Non solo Pollari, ma tutti i capi dei diversi settori, dal Sisde al capo della polizia, godono della fiducia del governo. Come potrebbe il governo lasciare alla guida di organismi così delicati persone che non godono della fiducia della autorità politica,soprattutto difronte a persone alle quali a livello internazionale viene riconosciuta una sicura competenza e una comprovata professionalità.

Non crede che dare la cittadinanza agli immigrati possa aggravare i problemi del terrorismo?
Il rischio non è dato dai nuovi cittadini, ma dai clandestini, dagli irregolari. La regolarizzazione va semmai salutata come uno strumento teso a contrastare il terrorismo. Questo purchè la acquisizione della cittadinanza sia vissuta con orgoglio, come approdo di un cammino di integrazione reale.Nell’antica Roma essere civis romanus era una condizione di cui andare fieri. È questo orgoglio civico che dobbiamo proporre chiedere e condividere con i nuovi cittadini. Può servire anche a chi è già italiano per risvegliare la fierezza di essere cittadino della Repubblica. Un orgoglio che mi piacerebbe celebrato ogni anno il 2 giugno in occasione della festa della Repubblica in modo da dare senso e visibilità alla conquista della cittadinanza da parte dei nuovi cittadini attraverso un giuramento pubblico di fedeltà alla Costituzione.

Pensa che gli immigrati possano entrare anche nelle forze armate?
Se diventano cittadini italiani, perché no? Riterrei invece  gravissimo se da noi prendesse piede il sistema che si va affermando in altri Paesi, dove si accolgono nelle forze armate immigrati nonostante li si consideri ed anzi proprio perchè li si considera cittadini di serie C. O addirittura si appalta il compito ai contractors. Machiavelli è lì a ricordarci l’epoca in cui l’Italia era in mano alle compagnie di ventura, e allo stesso tempo la necessità di pensare la Difesa, la difesa della pace e delle istituzioni, come il principale bene pubblico, la principale res pubblica condivisa.