29 Dicembre 2006
La vera forza dell’Italia
Autore: Alberto Chiara
Dalle delicate missioni fuori confine all’impennata delle spese: il
ministro della Difesa Arturo Parisi accetta di ragionare sui temi più
scottanti in questa intervista a Famiglia Cristiana. E rilancia: «Il
nostro Paese e le nostre Forze armate, con i circa 8.000 militari
adesso impegnati all’estero, svolgono un ruolo di pace».
D: Signor ministro, lei ha trascorso il Natale tra i soldati italiani in Afghanistan. Come li ha trovati?
R : «Sereni, solleciti nel testimoniare, con i fatti, il valore della
solidarietà. Ho visto uomini e donne in divisa caratterizzati dalla
serenità di chi, eseguendo un mandato delle istituzioni della
Repubblica, sa di fare il proprio dovere. La solidarietà cui facevo
cenno prima è quella di chi è consapevole di essere lì per aiutare un
popolo più sfortunato che va dandosi istituzioni democratiche, capaci
di promuovere e sostenere la crescita socioeconomica. Se è vero che la
sicurezza non è tutto, senza un quadro di sicurezza niente è possibile.
Ma il quadro non basta. Dobbiamo ora riempirlo, aumentando le attività
finalizzate allo sviluppo. Se le forze militari della comunità
internazionale lasciassero l’Afghanistan, la situazione peggiorerebbe.
Non possiamo girarci dall’altra parte. Nonostante i pericoli e i
rischi, dobbiamo continuare».
D: A proposito di rischi: la situazione in Libano si sta deteriorando? Teme attacchi contro le nostre truppe?
R : «No. Non abbiamo informazioni che segnalino rischi di attacchi
specifici contro le nostre truppe. Le difficoltà della situazione
interna al Libano e la permanenza delle tensioni nella regione ci
invitano, tuttavia, alla massima vigilanza. Dopo un mese di guerra
segnato da 1.400 morti, il solo annuncio della missione dell’Onu
Unifil2 – che l’Italia sostiene con passione – ha messo a tacere le
armi. Il silenzio dura da cinque mesi. In questo periodo si è persa una
sola vita: quella di un artificiere libanese, morto mentre sminava. È
questa la novità che stiamo proteggendo e siamo chiamati a proteggere.
Forse non è ancora la pace. Di certo non è la guerra».
D: Cosa cambia nella politica di difesa che lei coordina?
R : «Il nostro cambiamento ha un nome antico, anzi un numero: 11,
l’articolo della nostra Costituzione che ci impegna al ripudio della
guerra come azione indiscriminata contro persone colpevoli di
appartenere a un popolo o di vivere in un determinato territorio. Ma lo
stesso articolo ci chiama all’impegno attivo per la pace, partecipando
alle organizzazioni internazionali che la promuovono o la difendono, e
cedendo a esse una parte della nostra sovranità. Come altri dettami
della Costituzione, anche l’articolo 11 era stato in passato
parzialmente inattuato. È giunto il momento di dare a esso
compiutamente seguito: dicendo no alla guerra, ma anche sì alla pace.
Condividendo con le nazioni di buona volontà i rischi che ciò comporta».
D: Spese
militari: qualcuno ha parlato di “Finanziaria di guerra”.
Complessivamente ci si aggira sui 20 miliardi di euro. Un aumento, a
spanne, del 10 per cento. Dov’è la discontinuità con il Governo
precedente?
R : «Guardi che le spese che stanno
veramente crescendo sono sotto gli occhi di tutti, ma nessuno le vede.
Pensi alle porte sempre più blindate, alle polizie private,
all’acquisto di armi per autodifesa, alla crescita della criminalità
organizzata. Di fronte al diffondersi della “violenza ingiusta”, l’uomo
non ha trovato finora altra risposta che quella di affidare il
monopolio della “forza legittima” allo Stato, sotto il controllo della
legge. In questa prospettiva, ogni Paese deve fare la sua parte: da
solo e insieme con gli altri. La sicurezza ha dei costi. All’interno di
ogni Paese come all’esterno. Costi dolorosi in vite umane e in risorse.
Se vogliamo continuare a dormire sonni tranquilli, bisogna che qualcuno
vigili su di essi. Se non vogliamo regredire all’ autodifesa personale,
o metterci come Paese sotto la protezione altrui, sono costi che non
possiamo non pagare. Su questo piano, la discontinuità col passato è
che mentre il Governo precedente riconosceva a parole la sicurezza e la
difesa come obiettivi prioritari, nei fatti, nonostante i ripetuti
allarmi del ministro che mi ha preceduto, distruggeva il bilancio,
tagliando pesantemente le risorse. La recente Finanziaria ha, invece,
corretto questa tendenza, portando la percentuale del Prodotto interno
lordo dedicata alla Difesa dallo 0,84 per cento del 2006 allo 0,96 per
cento del 2007. Siamo ancora lontani dall’ 1,15 per cento raggiunto in
passato e, soprattutto, dall’l,41 per cento che rappresenta la
percentuale media di spesa dedicata dagli altri Paesi europei alla
propria difesa. L’aumento non è dovuto alla promozione di nuovi e
costosi programmi, ma alla necessità di far sì che gli impegni
precedenti siano onorati, evitando al Paese di dover pagare sanzioni a
seguito delle sue inadempienze. Questa correzione è stata in gran parte
resa possibile dalle risorse liberate dalla valorizzazione di immobili
non più pienamente utilizzati dalla Difesa».
D: L’ipotizzato
assemblaggio, a Cameri, degli F35, aerei che possono portare testate
nucleari, agita le comunità piemontesi e inquieta le coscienze…
R : «Premesso che è bene che le coscienze continuino a vigilare, pur
nei limiti di un’intervista alcune cose le posso dire. Innanzitutto,
voglio precisare che la definizione del programma in questione è stata
avviata nel 1996 dal nostro stesso Governo per iniziativa dell’allora
ministro Andreatta, che con lungimiranza si interrogava sulla necessità
di sostituire, ripeto sostituire, alcuni aerei ora in servizio che si
immagina di radiare a partire dal prossimo decennio. Alla fine del
processo di sostituzione, il numero di aerei complessivo sarà pari a
circa la metà degli aerei disponibili all’inizio. La scelta è guidata
dalla necessità di garantire alla nostra Aeronautica velivoli efficaci,
con il minimo impegno finanziario, pur ricordando che non stiamo
parlando di biciclette. Il fatto che possano portare testate nucleari
osservo infine – non significa che le porteranno. Non sarà l’arma a
guidare il nostro braccio, né il braccio a guidare le nostre
intenzioni. Un coltello, una pistola, un caccia…, quello che conta è
il disegno che li guida. E il nostro è scritto, come ho detto,
nell’articolo 11: le armi a nostra disposizione saranno usate soltanto
per difenderci e per impedire la violenza ingiusta, utilizzando la
forza, e solo la forza necessaria, a contrastare l’attacco».
D: Lei
è cattolico. Come concilia le sue convinzioni con l’impennata delle
spese militari, giacché la Chiesa è contraria al proliferare degli
armamenti?
R : «Ognuno è chiamato a difendere la
vita in risposta alla sua vocazione. La vicenda libanese ci dice che
senza le nostre Forze armate avrebbero potuto esserci altre migliaia di
morti innocenti. Fin quando saremo dentro il dramma e le contraddizioni
della storia, la violenza ingiusta sarà sempre con noi. Ed essa dovrà
essere innanzitutto prevenuta con tutti i mezzi pacifici disponibili,
sostenuti dalla testimonianza e dalla profezia. Ma, quando questi non
fossero sufficienti, come ci ha ricordato Giovanni Paolo Il, il
contrasto della “violenza ingiusta” non può privarsi dell’accesso alla
“forza legittima”. Una forza che è chiamata a essere la minima
possibile, senza tuttavia potersi alleggerire della necessità di essere
forza. Solo un abbraccio forte può impedire al dramma di trasformarsi
in tragedia. Ciò vale all’interno del Paese, dove la forza della legge
ha come alleati i costumi, le relazioni interpersonali, i valori, e, a
maggior ragione, vale all’esterno, dove spesso si trova sola di fronte
alla furia dell’aggressione».