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7 Gennaio 2007

La vera forza dell’Italia

Intervista al Ministro Arturo Parisi
Autore: Alberto Chiara
Fonte: Famiglia Cristiana

“E’ l’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra ma accetta di difendere la pace nell’ambito di organismi internazionali. Anche con le armi, quando è necessario”.
Dalle delicate missioni fuori confine all’impennata delle spese: il ministro della Difesa Arturo Parisi accetta di ragionare sui temi più scottanti in questa intervista a Famiglia Cristiana. E rilancia: «Il nostro Paese e le nostre Forze armate, con i circa 8.000 militari impegnati all’estero, svolgono un ruolo di pace».

– Signor ministro, lei ha trascorso il Natale tra i soldati italiani in Afghanistan. Come li ha trovati?
«Sereni, solleciti nel testimoniare, con i fatti, il valore della solidarietà. Ho visto uomini e donne in divisa caratterizzati dalla serenità di chi, eseguendo un mandato delle istituzioni della Repubblica, sa di fare il proprio dovere. La solidarietà cui facevo cenno prima è quella di chi è consapevole di essere lì per aiutare un popolo più sfortunato che va dandosi istituzioni democratiche, capaci di promuovere e sostenere la crescita socio-economica. Se è vero che la sicurezza non è tutto, senza un quadro di sicurezza niente è possibile. Ma il quadro non basta. Dobbiamo ora riempirlo, aumentando le attività finalizzate allo sviluppo. Se le forze militari della comunità internazionale lasciassero l’Afghanistan, la situazione peggiorerebbe. Non possiamo girarci dall’altra parte. Nonostante i pericoli e i rischi, dobbiamo continuare».

– A proposito di rischi: la situazione in Libano si sta deteriorando? Teme attacchi contro le nostre truppe?
«No. Non abbiamo informazioni che segnalino rischi di
attacchi specifici contro le nostre truppe. Le difficoltà della situazione
interna al Libano e la permanenza delle tensioni nella regione ci invitano,
tuttavia, alla massima vigilanza. Dopo un mese di guerra segnato da 1.400
morti, il solo annuncio della missione dell’Onu Unifil2 – che l’Italia
sostiene con passione – ha messo a tacere le armi. Il silenzio dura da
cinque mesi. In questo periodo si è persa una sola vita: quella di un
artificiere libanese, morto mentre sminava. È questa la novità che stiamo
proteggendo e siamo chiamati a proteggere. Forse non è ancora la pace. Di
certo non è la guerra».

Cosa cambia nella politica di difesa che lei coordina?
«Il nostro cambiamento ha un nome antico, anzi un numero:
11, l’articolo della nostra Costituzione che ci impegna al ripudio della
guerra come azione indiscriminata contro persone colpevoli di appartenere a
un popolo o di vivere in un determinato territorio. Ma lo stesso articolo ci
chiama all’impegno attivo per la pace, partecipando alle organizzazioni
internazionali che la promuovono o la difendono, e cedendo a esse una parte
della nostra sovranità. Come altri dettami della Costituzione, anche l’articolo
11 era stato in passato parzialmente inattuato. È giunto il momento di dare
a esso compiutamente seguito: dicendo no alla guerra, ma anche sì alla
pace. Condividendo con le nazioni di buona volontà i rischi che ciò
comporta».

Spese militari: qualcuno ha parlato di
“Finanziaria di guerra”. Complessivamente ci si aggira sui 20
miliardi di euro. Un aumento, a spanne, del 10 per cento. Dov’è la
discontinuità con il Governo precedente?
«Guardi che le spese che stanno veramente crescendo sono
sotto gli occhi di tutti, ma nessuno le vede. Pensi alle porte sempre più
blindate, alle polizie private, all’acquisto di armi per autodifesa, alla
crescita della criminalità organizzata. Di fronte al diffondersi della
“violenza ingiusta”, l’uomo non ha trovato finora altra risposta
che quella di affidare il monopolio della “forza legittima” allo
Stato, sotto il controllo della legge. In questa prospettiva, ogni Paese
deve fare la sua parte: da solo e insieme con gli altri. La sicurezza ha dei
costi. All’interno di ogni Paese come all’esterno. Costi dolorosi in
vite umane e in risorse. Se vogliamo continuare a dormire sonni tranquilli,
bisogna che qualcuno vigili su di essi. Se non vogliamo regredire all’autodifesa
personale, o metterci come Paese sotto la protezione altrui, sono costi che
non possiamo non pagare. Su questo piano, la discontinuità col passato è
che mentre il Governo precedente riconosceva a parole la sicurezza e la
difesa come obiettivi prioritari, nei fatti, nonostante i ripetuti allarmi
del ministro che mi ha preceduto, distruggeva il bilancio, tagliando
pesantemente le risorse. La recente Finanziaria ha, invece, corretto questa
tendenza, portando la percentuale del Prodotto interno lordo dedicata alla
Difesa dallo 0,84 per cento del 2006 allo 0,96 per cento del 2007. Siamo
ancora lontani dall’1,15 per cento raggiunto in passato e, soprattutto,
dall’1,41 per cento che rappresenta la percentuale media di spesa dedicata
dagli altri Paesi europei alla propria difesa. L’aumento non è dovuto
alla promozione di nuovi e costosi programmi, ma alla necessità di far sì
che gli impegni precedenti siano onorati, evitando al Paese di dover pagare
sanzioni a seguito delle sue inadempienze. Questa correzione è stata in
gran parte resa possibile dalle risorse liberate dalla valorizzazione di
immobili non più pienamente utilizzati dalla Difesa».

L’ipotizzato assemblaggio, a Cameri, degli F35, aerei
che possono portare testate nucleari, agita le comunità piemontesi e
inquieta le coscienze…

««Premesso che è bene che le coscienze continuino a
vigilare, pur nei limiti di un’intervista alcune cose le posso dire.
Innanzitutto, voglio precisare che la definizione del programma in questione
è stata avviata nel 1996 dal nostro stesso Governo per iniziativa dell’allora
ministro Andreatta, che con lungimiranza si interrogava sulla necessità di
sostituire, ripeto sostituire, alcuni aerei ora in servizio che si immagina
di radiare a partire dal prossimo decennio. Alla fine del processo di
sostituzione, il numero di aerei complessivo sarà pari a circa la metà
degli aerei disponibili all’inizio. La scelta è guidata dalla necessità
di garantire alla nostra Aeronautica velivoli efficaci, con il minimo
impegno finanziario, pur ricordando che non stiamo parlando di biciclette.
Il fatto che possano portare testate nucleari – osservo infine – non
significa che le porteranno. Non sarà l’arma a guidare il nostro braccio,
né il braccio a guidare le nostre intenzioni. Un coltello, una pistola, un
caccia…, quello che conta è il disegno che li guida. E il nostro è
scritto, come ho detto, nell’articolo 11: le armi a nostra disposizione
saranno usate soltanto per difenderci e per impedire la violenza ingiusta,
utilizzando la forza, e solo la forza necessaria, a contrastare l’attacco».

Lei è cattolico. Come concilia le sue convinzioni con
l’impennata delle spese militari, giacché la Chiesa è contraria al
proliferare degli armamenti?

«Ognuno è chiamato a difendere la vita in risposta alla
sua vocazione. La vicenda libanese ci dice che senza le nostre Forze armate
avrebbero potuto esserci altre migliaia di morti innocenti. Fin quando
saremo dentro il dramma e le contraddizioni della storia, la violenza
ingiusta sarà sempre con noi. Ed essa dovrà essere innanzitutto prevenuta
con tutti i mezzi pacifici disponibili, sostenuti dalla testimonianza e
dalla profezia. Ma, quando questi non fossero sufficienti, come ci ha
ricordato Giovanni Paolo II, il contrasto della “violenza
ingiusta” non può privarsi dell’accesso alla “forza
legittima”. Una forza che è chiamata a essere la minima possibile,
senza tuttavia potersi alleggerire della necessità di essere forza. Solo un
abbraccio forte può impedire al dramma di trasformarsi in tragedia. Ciò
vale all’interno del Paese, dove la forza della legge ha come alleati i
costumi, le relazioni interpersonali, i valori, e, a maggior ragione, vale
all’esterno, dove spesso si trova sola di fronte alla furia dell’aggressione».