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17 Settembre 2012

INTERVENTO DI ARTURO PARISI IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI Enrico Morando e Giorgio Tonini

INTERVENTO DI ARTURO PARISI IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI Enrico Morando e Giorgio Tonini L’ITALIA DEI DEMOCRATICI Idee per un manifesto riformista Venezia, Marsilio Editori, 2012
FIRENZE, Palazzo Vecchio, 17 Settembre 2012

Partecipavano all’incontro coordinato da Dario Parrini, Sindaco di Vinci, oltre agli autori e ad Arturo Parisi, Vannino Chiti, e Mattero Renzi

(il testo riportato di seguito predisposto per l’incontro è stato letto solo in parte)

Innanzitutto 2 parole sul libro.

Un libro di questi tempi inusuale in politica. Inusuale soprattutto se scritto da politici. Dico scritto non firmato. E lo dico ricordando i troppi libri che dei politici riproducono il pensiero ma spesso non sono stati da loro pensati. Ma lo dico senza polemica. Se infatti, come disse Pirandello una volta per sempre, o si vive o si scrive. Debbo dire che questo libro dimostra che in politica c’è qualcuno che riesce contemporaneamente a vivere e scrivere.

Non un libro da leggere. Un libro da studiare. Frutto della riflessione che Enrico Morando e Giorgio Tonini hanno in questi anni portato avanti mentre operavano. Un libro da leggere da svegli. Sconsigliato da tenere sul comodino a chi soffra di insonnia.

Un libro soprattutto per pensare al futuro col respiro che deve avere un libro pensato per il futuro. Finalmente qualcuno che gioca a bocce in mezzo a questo infinito ping pong di battute, slogan, agenzie, twitter che ci consuma da anni ogni giorno di più.

Chi conosce la coerenza e la serietà dell’impegno di Enrico e di Giorgio non potrà che ritrovare la traccia di una battaglia che dura ormai da decenni. E tuttavia il libro consente di scoprire quale fosse la profondità e lo spessore di posizioni che erano solo la punta del loro iceberg. Ritroviamo qua la geografia, la storia, i concetti, e le azioni dentro i quali posizioni che potevano apparire isolate appaiono nella forza della organicità che le collega.

2. La tesi

Il contributo più importante del libro è a mio parere quello analitico e la sua proposta programmatica. Fondato su una riflessione di ampio respiro e su una lettura approfondita della letteratura politica. Penso alla ricostruzione del passaggio dalla fase di “compressione” che riducendo le disuguaglianze genera la più grande classe media della storia, alla fase che potremmo dire di “espressione” che partendo dalla Tatcher e da Reagan scommette sulla disuguaglianza direi sul diritto e l’interesse alla disuguaglianza. La individuazione delle linee di rottura, che generano la crisi presente e la connessione tra la crescita spaventosa delle disuguaglianze all’interno dei singoli Paesi occidentali, con le disuguaglianze esterne tra i Paesi.

Sarebbe perciò questo il nucleo del quale merita soprattutto parlare, il nucleo che definisco da studiare.

IL CHE COSA, PIU’ CHE IL CHI

Nessuno si meraviglierà se, considerato il passagio politico e il contesto di questo incontro io preferisco concentrarmi su quello che è allo stesso tempo la tesi e il messaggio politico immediato. Quello rivolto al “chi” invece che al “che cosa”.

QUESTO ANCHE PERCHE’, COME DICONO GLI STESSI AUTORI, E’ SUL CHI CHE CASCA L’ASINO

LA POLITICA E’ INFATTI IL REGNO DEL CHI, NON DEL CHE COSA, E’ IL CHI CHE MANCA IN GENERE ALL’APPUNTAMENTO

QUAL E’ DUNQUE LA TESI POLITICA IL MESSAGGIO CHE VIENE DAL LIBRO?

Fatemela dire così alla buona come me la sono segnata. Con le parole di Obama, le stesse che hanno accompagnato la campagna di Veltroni sei anni fa. “Yes we can”. Si ce la possiamo fare.

Una postura ottimista memore del balzo tentato appena quattro anni fa che immaginò di rovesciare la storia passando d’un tratto dalla frammentazione partitica ad una semplificazione bipartitica, una postura ottimista come si conviene ad un riformista che ha fiducia nell’uomo, una postura da PD come sezione italiana del partito democratico americano, diremmo SIPDA come un tempo si diceva SFIO, anzi forse sezione italiana del partito democratico obamiano. Una postura che mette forse tra parentesi troppe cose. Basterebbe confrontare gli articoli che proprio oggi abbiamo avuto occasione di leggere sui quotidiani sugli assalti alle rappresentanze diplomatiche americane e le manifestazioni contro l’America nelle piazze arabe, col passaggio nel quale secondo gli autori “sul piano internazionale c’è un clima nuovo: gli Stati Uniti sono forse meno temuti, ma certamente più amati, o comunque meno odiati” p.42.

Ma tuttavia una postura senza la quale non sarebbe possibile parlare di futuro.

Si Ce la possiamo fare. Aggiungendo in omaggio alla scommessa che Matteo Renzi ha lanciato 4 giorni fa a Verona. “Adesso!” Si, ce la possiamo fare. Adesso.

Dove il noi sta per l’Italia, per il riformismo, per il Pd. Le parole che compongono appunto il titolo del libro.
“L’Italia dei democratici. Idee per un manifesto riformista.”

Dove RIFORMISMO, proprio perchè apparentemente scontato e abusato, resta in gran parte da spiegare ma ADESSO è chiarissimo. Adesso significa infatti SUBITO se facciamo riferimento alla partenza, ma non certo se facciamo riferimento al punto di arrivo.

Dal punto di vista dell’analisi il ragionamento di Morando e Tonini ha come sfondo un tempo lungo che muove dal New deal e pensa al Mondo, ma, anche quando si sposta al progetto e si restringe al nostro Paese, il suo tempo non è per questo breve.

Se i problemi che abbiamo di fronte non sono nati ieri, la loro soluzione non è per domani. L’agenda, le cose da fare, si collocano in un orizzonte che va oltre la legislatura coinvolgedone almeno due. Non è un caso che essi assumono ad esempio l’agenda 2010, varata nel 2003 dal cancelliere Schroeder, volta a dare un nuovo programma politico alla SPD in sintonia con quello del Labour di Tony Blair, una serie di riforme strutturali nel settore del Welfare state, del Mercato del lavoro, dell’istruzione e del federalismo. La prospettiva aperta dall’agenda 2010 consenti alla SPD un pareggio e impose una grande coalizione guidata dalla Merkel che se la intestò.

Non è l'”agenda” Monti, quella della quale si è appunto parlato negli ultimi tempi pensando al prossimo anno quella di cui si parla, ma una agenda appunto riformista che muove dagli “acta” di Monti.

L’agenda della quale parla il libro è appunto la argomentazione appassionata sulla necessità di “un lungo ciclo di governo riformista” assai di più della “proposta politicista di una alleanza tra progressisti e moderati” p.22. Una proposta che non ha remore a riallacciarsi a quella alleanza tra i meriti e i bisogni lanciata esattamente 30 anni fa a Rimini da Craxi e da Martelli per rappresentare la vocazione maggioritaria del Psi, come progetto capace (certo per la sua qualità politica, piuttosto che per la quantità dei consensi di partenza) di attrarre la maggioranza degli italiani.

E’ appunto dalla lunghezza di questa prospettiva che a mio parere dobbiamo partire quando ci poniamo la questione del ricambio della classe dirigente e del passaggio del testimone ad una “leva generazionale” che riesca ad associare contemporaneamente una esperienza sufficiente alla energia che viene normalmente associata alla leadership. Una “leva di età” in condizione di iniziare un lavoro del respiro quale quello qua indicato come necessario e di portarlo a termine avendo a disposizione un arco di tempo mediamente decennale. E aggiungo portarlo a termine in una età che alla fine dell’opera non esponga alla tentazione di incollarsi alla poltrona perchè non si ha altra prospettiva. Dico questo per dire che condivido la domanda di rinnovamento interpretata con tanto vigore da Renzi ma non condivido per nulla la motivazione, gli argomenti, con i quali Matteo ha posto finora la questione del ricambio. Se la “rottamazione” ha aiutato a bucare la comunicazione, lo slogan rischia di introdurre nel discorso politico una categoria che è allo stesso eccessiva e fuorviante. Non è infatti per dispetto a chi c’è o per rispetto di chi non c’è che è necessario il ricambio, ma per realizzare il progetto. Ripeto, realizzarlo e tornare a casa. Approfittando della sua presenza, lo dico a Matteo con l’affetto che sento verso chi ha l’età di mio figlio, ma anche col rispetto che debbo ad uno che è più grande di mio padre, che nell’ultima guerra morì ad una età di due anni inferiore a quella del sindaco dei fiorentini che i giornali si attardano a descrivere come fosse un ragazzo.

Se si chiede di iniziare a realizzare il progetto ADESSO è perchè si sa che non è un progetto che può concludersi ADESSO.
3. In questa stessa scia si colloca la questione del partito, della necessità di un partito nuovo. Anche a partire dal riconoscimento che a far fallire il tentativo socialista del 1982 non furono le insufficienze del soggetto ma “la drammatica distanza che sarebbe emersa qualche anno più tardi tra l’ambizione del progetto e la natura stessa del soggetto – il partito Psi – che lo aveva elaborato e avrebbe dovuto farsene interprete e realizzatore” p.18 E’ il partito infatti lo strumento che favorisce la continuità della realizzazione del progetto nel tempo, sia esso una evoluzione del partito tradizionale europeo o quel partito coalizione all’americana, l’organizzazione del “campo di centrosinistra” che impropriamente traduciamo con la parola partito.

Che non si interrompa il cammino in avanti, e allo stesso tempo dicono gli autori che si sia in condizione di liberarsi con gradualità del passato. “Delle abitudini dicono gli autori, citando Mark Twain, non ci libera buttandole dalla finestra, ma semmai spingendole per le scale un gradino alla volta.” Aprendo così la questione se sia poi così vero che i due processi debbano essere così simmetrici. Se la gradualità delle politiche possa essere simmetrica al ricambio dei politici. E qua torna utile la brutalità della rottamazione. Se non ci sia cioè del vero in chi chiede che se almeno il vecchio non si fa da parte ADESSO, il nuovo, che fa già fatica ad affermarsi non finisca per non arrivare MAI.

Che il partito nuovo serva per la continuità nel raggiungimento del futuro, o per la gradualità nel commiato dal passato, esso è tuttavia possibile a condizione che almeno i miti siano superati o almeno i due più pericolosi.

Il mito dello storicismo. Il mito dell’unità della sinistra. La missione storica. Le alleanze.
Il mito gramsciano del partito come “nuovo principe” per cambiare della società, invece che strumento nelle mani del cittadino per governare lo stato.
E qua la citazione di Gramsci è a mio parere definitiva. Appassionante e allo stesso tempo agghiacciante.

Voglio rileggerla.
pag. 196
” Il moderno Principe, – scrisse Gramsci – sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato. solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.
E assieme a questo il mito della unità della sinistra, che chiama continuamente i salvati a ritrovarsi nella stessa casa in nome della comune salvezza, per portare a termine assieme la missione di salvezza che è stata ad essi affidata. Un mito che pensa la politica come religione e il partito come chiesa.

Fino a quando il partito non supererà questi miti invece di uno strumento sarà un ostacolo rispetto all’obiettivo di riforma che ci proponiamo (governare il mondo con gli strumenti della democrazia)

Parole che io condivido, anche se per quel che riguarda la seconda invece di del mito della unità della sinistra preferirei parlare dell’unità della sinistra come mito.

Nella mia idea di bipolarismo ritengo infatti che un partito come il Pd debba innanzitutto sentirsi corresponsabile della organizzazione e quindi della unità del campo di centrosinistra, per motivi partigiani e sistemici (fino a quando tutte le espressioni della società non sono collocate in uno e in solo campo, il bipolarismo è infatti a rischio). Lo dico anche perchè non vorrei che al mito della unità della sinistra si sostituisse un mito della unità dei riformisti, come mi sembra adombrato laddove Morando e Tonini ripropongono la formula della “casa di tutti i riformisti”.

E tuttavia due condizioni che impongogno nuove domande e chiamano in causa i fatti.

Le domande

PRIMO possiamo considerare nuovo un partito per il solo fatto che si propone di rinnovarsi o la novità deve essere alla base, all’origine della sua nascita? E’ cioè possibile accettare che il superamento dell’idea che la sua missione sia una missione religiosa rappresenti un obiettivo da raggiungere gradualmente nella continuità e non invece il presupposto della sua nascita deve essere appunto la radicale discontinuità col passato?

SECONDO è mai possibile contestare l’unitarismo esterno senza prima aver battuto quello interno?

Io capisco chi dice: non drammatizziamo con la rottura col passato, romperemo pian piano nel tempo, e così impareremo a dividerci ma oggi quella che conta è l’unità.

Capisco e vorrei condividere questa posizione. Ma sarebbe una illusione. Quello che dentro la politica dobbiamo difendere e salvaguardare sempre è il confronto, il rispetto, l’attenzione e l’ascolto. Ma la verità e la responsabilità ci impone di dare alle domande le risposte che la vita e la storia ci chiede nel momento in cui ce le chiede. Si può essere graduali nella azione se alla sua origine sta una rottura e una scelta. E’ proprio la rottura col passato, e la scelta determinata del futuro che ci consente di essere graduali. Purtroppo non è stata questa la storia dei primi 5 anni di vita del Pd che abbiamo alle spalle.

Il libro imputa la continuità col passato alla scelta del 2009, a quello che chiamano il congresso del 2009, l’elezione che tre anni fa ha portato Bersani alla segreteria. Sarebbe la sua elezione che ci ha riportato al passato.

Scrivono Morando e Tonini.
p.172 Bersani fu eletto segretario su una piattaforma di netta discontinuità
p.209 Anche se i candidati si applicarono a mimetizzare le differenze, le differenze c’erano, ed erano quelle descritte dai media perchè incorporate nella storia delle persone

E’ per questo che il congresso del 2009 ha rappresentato una svolta. Una svolta tuttavia così forte, come gli stessi autori riconoscono, che dopo poco tempo “di quella svolta rimane in piedi ben poco”.

Io penso invece che dobbiamo chiederci se la mancata rottura col passato non dati invece all’inizio, al 2007, cioè a dire alla stessa elezione che con un voto a larghissima maggioranza portò Veltroni alla Segreteria. Mi chiedo cioè se non avesse ragione Bersani quando a Torino in occasione del Lingotto2 ha affermato che “solo un premio Nobel sarebbe riuscito a spiegare quali sono le differenze tra la sua linea e quella di Veltroni”.

Una provocazione che purtroppo non ha avuto risposta e men che mai smentita.

Perchè la risposta non poteva che venirgli dai fatti e dai fatti non è purtroppo venuta. Anzi. E qua vengono i fatti perchè appunto nel continuismo e prima ancora nell’unitarismo che ha accomunato la quasi totalità del gruppo dirigente sta la causa della incapacità del Pd di essere quello che avevamo promesso di essere.

Non è questo il luogo e non c’è tempo per ripercorrerli ancora una volta. Dal Fassino che diceva voglio portare nel Pd tutto il partito e tutto assieme. Al Veltroni che chiedeva e otteneva come condizione della sua discesa in campo l’unità del gruppo dirigente. Al rifiuto del confronto aperto, prima, durante la crisi della segreteria Veltroni all’indomani della sconfitta del 2008, e alla fine in occasione delle sue dimissioni dalla Segreteria. Alla abitudine alle assemblee concluse da voti unanimi più o meno per acclamazione.

Dico questo non per rivangare il passato che purtroppo è ancora presente, ma per salvare nel presente il possibile futuro.

E quando parlo del presente parlo delle primarie. Lo voglio dire senza giri di parole. Il vero senso delle primarie, l’utilità di queste primarie è infatti consentire quel dibattito che finora non c’è stato a cominciare dalle primarie per Prodi. Lo ripeto a cominciare dalle primarie per Prodi.

Ma questo è possibile a due condizioni. Che le primarie prima che aperte siano vere.

Vere innanzitutto nel loro svolgimento. E vere nel loro fine.

Nel loro svolgimento. Che l’unità accetti si sottoporsi all’esame della verità. Che dentro di esse si pratichi l’obiettivo del superamento dell’unitarismo verso una vera unità quella che consente di esprimere le differenze. Che sia possibile dirsi la verità. Al di là della condivisione della sua proposta, in questo penso debba essere riconosciuta la novità del contributo di Matteo Renzi il dono della sua ruvidezza, diciamo pure della sua antipatia. Di tutto infatti egli può
essere accusato all’infuori che del cedimento all’unitarismo unanimista, e dell’accettazione del continuismo che ha segnato la nascita del Partito Democratico.
Che siano vere soprattutto nel suo fine. Che le primarie possano essere quello che dicono di essere. La scelta del candidato della coalizione di centrosinistra a presidente del consiglio.

Una proposizione nella quale le parole che restano ancora tutte da conquistare sono COALIZIONE e PRESIDENTE

Perchè non è male dirsi la verità. All’inizio dell’iter che aprirà le elezioni finali mancano più o meno 4 mesi, e 2 mesi mancano alle primarie. Ma al momento non c’è notizia della esistenza di nessuna coalizione, a meno che qualcuno non possa considerare coalizione l’esito combinato, delle dichiarazioni pubbliche o dei caffè presi assieme tra dirigenti Pd e Rutelli, Vendola, Nencini. O che si possa ipotizzare come competitiva una coalizione che rispetto a quella che ha perso nel 2008 è in partenza superiore nel numero di addendi e inferiore nel totale. E soprattutto che si possa considerare come base politica la carta di intenti proposta da Bersani, una carta più utile per misurare le differenze sul passato che per descrivere il denominatore comune nel presente. A confronto il fragile accordo all’origine dell’Unione è un patto d’acciaio.

Ma ancor meno vere sono le primarie nel fine. L’idea di eleggere un candidato a Presidente, quando non solo non esiste ancora alcuna norma che lo preveda ma mentre si lavora con impegno per evitare che dalle elezioni esca un Presidente.

Voi sapere che su questo potrei cavarmela con una parola, VERGOGNA, o dovrei parlare per ore, anche perchè onestamente il libro è su questi tempi troppo reticente. E’ vero che le leggi elettorali non sono tutto, ma introdurre l’orrido Porcellum nella penultima pagina forse è troppo poco.

Ma una cosa la voglio dire visto che c’è Matteo. Ti ho sentito a Verona riproporre come modello istituzionale quello che viene dalla esperienza dei sindaci senza preoccuparti di quel complesso del tiranno che come dice perfettamente il libro è una delle remore maggiori per lo sviluppo della nostra democrazia. Ma il modello del sindaco è una battaglia per il futuro. Noi ne abbiamo da combattere nel presente una che deciderà del futuro, e dello stesso senso delle primarie.

Prima che nelle province che ti proponi di attraversare, porta il tuo camper a Roma. E’ lì che si decide il nostro e il tuo futuro.

Non ci sono semifinali senza finale. Nè gare senza traguardo.