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21 Aprile 2007

Intervento di Arturo Parisi al Congresso della Margherita

Care amiche, cari amici, caro Francesco,
consentitemi innanzitutto di manifestare a voi che siete qui e a tutti i democratici, la mia emozione la mia profonda emozione per il passaggio che ora ci troviamo a condividere.
Un passaggio che dobbiamo comunque considerare di rilievo storico anche se collocato in un cammino che va indietro nel tempo e non si concluderà  domani.

Il treno che prendemmo all’indomani della cesura storica dell’89, comincia a misurare ormai in decenni il suo viaggio, un viaggio che in gran parte abbiamo fatto, come ci ha ricordato Romano Prodi, sotto il segno dell’Ulivo.

E ancora lontana  la meta del treno che in una mattina di marzo di tanto tempo fa, sono esattamente cinque anni e mi sembrano tuttavia anche essi una infinita, presi a Parma pensando di fermarmi a Bologna.
E tuttavia io oggi so e sento che su quel treno non sono più solo.

Anche se non penso e non pretendo che su quel treno tutti abbiano messo i loro sogni, le parole dei deliberati congressuali mi dicono che su quel treno tutti hanno messo i propri bagagli: anche i bagagli di quanti non hanno di questo ancora acquisito compiuta consapevolezza.

Ma oggi soprattutto so che la strada fatta assieme è enorme.
Solo ieri mi son reso conto della sua misura: quando seguendo per radio l’altra sessione di questo incontro, quella che si va svolgendo a Firenze, ho sentito sulla bocca di Massimo D’Alema, la parola “ultimo” per definire il congresso che i Ds si apprestano a concludere.

L’ultimo congresso di una storia che noi sappiamo vissuta come una storia sacra. Una storia pienamente comprensibile come ieri D’Alema l’ha evocata solo con le categorie della religione e della fede.

Una storia che ha a lungo affidato e in molti affida ancora la salvezza personale dei militanti e la salvezza collettiva delle masse al partito e solo al partito secondo lo stesso principio che in riferimento alla Chiesa fa dire “extra ecclesiam nulla salus”: sono parole di D’Alema.

Così l’ultimo congresso di un cammino che ricordava di venire da lontano e diceva di andare lontano.

Non una sosta. Non la continuazione dietro un nome nuovo della cosa di sempre ma un compimento, Un compimento celebrato pensando ad un nuovo inizio, un inizio che è nuovo perché guidato dalla consapevolezza di non essere più come nei passaggi seguiti alla Bolognina un inizio solitario e autosufficiente.

Qualcuno dirà  che sono parole, sono ancora parole. Ma tutti in questi anni abbiamo sperimentato quale sia il peso delle parole e lo abbiamo sperimentato assieme. E non a caso le parole che oggi pronunciamo – dalla parola  “ultimo” a quella  “scioglimento” – sono state ritenute fino a pochissimo tempo fa e forse ancora oggi impronunciabili anche solo come parole. E’ per questo motivo che voglio, sempre in riferimento a D’Alema, proprio perchè con lui ho in passato segnato più di una volta la distanza, e talvolta in modo drammatico, dare a lui pubblico riconoscimento del suo riconoscimento del radicamento del cammino che inizia nel progetto dell’Ulivo, così come voglio dare a lui pubblico riconoscimento del riconoscimento del ritardo di questa acquisizione.

Ultimo congresso dicevamo. La conclusione della vicenda dei Ds come partito, ripeto della vicenda dei Ds in quanto partito, che nessuno può scambiare con la conclusione dei Ds e neppure come l’esaurimento della loro tradizione, la conclusione o anche solo la dichiarazione solenne della conclusione, dicevo, dà da sola la misura del rilievo storico di questo passaggio. Da quando abbiamo cominciato a ragionare della necessità di dare stabilità  e quindi forma di partito all’Ulivo il superamento di quello che è stato per eccellenza nel corso di tutta la storia repubblicana “il” partito, cioè a dire il pci-pds-ds è stato considerato infatti da tutti, presupposto, condizione e strumento per l’avvento di un partito nuovo. E’ attorno al rifiuto o alla impossibilità  del superamento di quel partito, del partito dei ds, che si sono perciò concentrate le obiezioni di chi riteneva impossibile la trasformazione dell’Ulivo in partito e quindi la resa alla impossibilità   di andare oltre la natura di cartello elettorale.

Stretti tra l’irrisione della ipotesi dello scioglimento del partito – chi potrà  mai dimenticare le reazioni alla mia proposta del gennaio del 2000 – e il rifiuto della riduzione della nostra alleanza alla forma della federazione tra un albero e una serie di cespugli, si è svolta la nostra vicenda e la nostra ricerca, la vicenda e la ricerca che pensando alla sua leggerezza presente abbiamo chiamato Margherita, e pensando alla sua vocazione futura abbiamo chiamato DL immaginando appunto che ci sarebbe stato un momento nel quale ci saremmo potuti chiamare tutti semplicemente Democratici.

E’ per questo che oggi noi celebriamo questo congresso, che anche per noi l’ultimo, come una vittoria comune, come la sanzione della riuscita del nostro progetto.

La Margherita-DL, anche solo per la loro stessa esistenza di aggregazione politica quantitativamente comparabile e allo stesso tempo qualitativamente componibile con i Ds, hanno rappresentato il rifiuto della esclusione della forma “albero cespugli”, la permanenza della prospettiva dell’Ulivo, la possibilità  della apertura delle condizioni di quella novità  che oggi chiamiamo Partito Democratico.

Nella nostra faticosa convergenza e nelle nostre dolorose divergenze, della nostra cooperazione e della nostra competizione noi che siamo qua riuniti, di questa possibilità , di questo progetto, di questa vittoria siamo stati in questi anni i garanti e i costruttori: tutti e tutti assieme.

E, come ho fatto già  pubblicamente, di questo voglio dare atto di nuovo a Francesco Rutelli che ha guidato in questi anni la nostra convivenza, dandole il segno della sua determinazione, alla sua misura, e della sua flessibilità: a Francesco e a tutti quelli che in questa impresa si sono spesi cominciando da Pierluigi Castagnetti e Lamberto Dini senza i quali essa non sarebbe neppure iniziata e da Franco Marini, Dario Franceschini, Wiler Bordon e Antonello Soro senza i quali non sarebbe cresciuta.

Ma questo è amici ormai passato. Anche per noi inizia oggi un cammino nuovo.
Per quanti al progetto hanno creduto fin dall’inizio e per quanti ancora oggi hanno su di esso dubbi e riserve.

Tutti debbono avere consapevolezza che anche noi come i Ds bruciamo con la decisione di oggi la nave alle nostre spalle. Così come avvenne per i partiti che lasciammo alle nostre spalle per dar vita alla Margherita su quella che è stata in questi anni la nostra nave nessuno può illudersi di fare ritorno senza bruciarsi.

Tutti debbono sapere che la nave che abbiamo ormai messo in mare per trasportare nel futuro le nostre speranze non ha alternative.

E’ per questo motivo che questo passaggio ha bisogno di tutta la nostra verità, di quella che dobbiamo a noi stessi, di quella che ci dobbiamo reciprocamente, di quella che dobbiamo agli italiani.

Sei anni fa, come ricorderete, ponemmo all’origine della Margherita il si degli elettori, il successo elettorale di quello che era stato per la maggior parte dei partiti promotori poco più di un cartello elettorale. “La risposta è sì, qual è la proposta?” immaginammo ci avessero detto gli elettori. I fatti successivi hanno dimostrato che purtroppo la proposta non fu alla altezza della risposta. O, meglio, non fu all’altezza della risposta perchè a lungo, troppo a lungo, la proposta apparve essere non l’Ulivo come avevamo dato ad intendere ai cittadini, non foss’altro perchè dell’Ulivo era leader il leader della Margherita, ma perchè la proposta apparve essere la Margherita in sé, o addirittura dietro il nuovo nome le sue preesistenti componenti.

E’ un errore che non possiamo ripetere. Il Partito che oggi proponiamo agli italiani non è come la Margherita una proposta pensata per attraversare l’oggi, ma una proposta pensata per il domani.

Il Paese non ci perdonerebbe di aver sprecato l’unica speranza della quale disponiamo per il suo futuro.

Anche se frutto di un precipitato di poche ore, all’indomani delle primarie, la proposta del Partito Democratico aveva già  allora una storia antica. Una storia che lo aveva associato da sempre al futuro e che aveva giustamente sconsigliato di proporlo compiutamente se non a livello di provocazione intellettuale.

Non a caso l’Ulivo che di esso è stato fin dall’inizio il nome si era inibito la possibilità  di pronunciare la cosa.

Come si poteva immaginare infatti una unione stabile, quella unione stabile che chiamiamo partito, nel momento in cui trovavamo difficoltà  anche a varare unioni provvisorie come erano e sono quelle elettorali? Penso alle divisioni sulla lettura nostalgica del risultato europeo, alle divisioni sulle liste regionali, alle divisioni sulle liste al parlamento.

Non a caso nelle nostre stesse contrapposizioni interne, penso alla dolorosa prova del 20 maggio del 2005 alla quale ha fatto ieri riferimento Francesco, mentre noi sostenitori dell’unione elettorale presente non osavamo neppure proporre l’unità  partitica per il futuro, chi lo proponeva incidentalmente per il futuro lo faceva per argomentare meglio il no nel presente.

No. Questa volta il futuro è diventato presente. Considerato che con la presentazione di una sola mozione abbiamo messo alle nostre spalle il “se”, è per questo motivo che abbiamo assoluto bisogno di convenire sul perchè e di accordarci sul come. Il “perché” e il “come” saranno infatti il tema del nostro dialogo con i cittadini, l’unico argomento che questo congresso affida agli organi preposti alla fase conclusiva del partito.

Ed è qui che purtroppo sento il dovere di rinnovare il rammarico per come siamo arrivati a questo congresso. Lo dico non solo come rimostranza per il passato ma soprattutto pensando al futuro come invito pressante a mettere riparo alle contraddizioni alle insufficienze alle degenerazioni. Lo dico innanzitutto per confessare le mie personali responsabilità . Semplificando eccessivamente le cose i giornalisti mi hanno attribuito una denuncia sullo stato della democrazia interna alla Margherita. Non intendo rimangiarmi nulla. La degenerazione della vita interna del partito per quel che riguarda
il rispetto delle regole è visibile a tutti o almeno a chi vuol vedere. Messa così non si capirebbe tuttavia in che cosa consista la mia responsabilità . La rivendicazione della estraneità  alla dinamica del tesseramento e la testimonianza della avvenuta riduzione della componente politica organizzata che ebbe il nome di ulivisti ad una condivisione culturale interessata soltanto al futuro, potrebbero far apparire la mia la autocritica come il solito “mea culpa” battuto sul petto del vicino.

No cari amici quello di cui confesso la mia colpa è, come ho detto, quello di aver ceduto alle pressioni ispirate ad un malinteso spirito unitario ritirando la mozione ulivista. Ho così consentito che si sottraesse agli iscritti la possibilità  di una scelta, la necessità  del confronto, l’obbligo della conta su ragioni nitidamente politiche. Certo il tesseramento nella sua quantità  e nella sua qualità, solo in minima parte dovuto al suo prolungamento, sta lì a dimostrare quale e quanto fosse il danno già  prodotto in alcune aree del Paese. Di questo Rutelli ha dato nella sua relazione, anche senza approfondire le responsabilità, pubblico riconoscimento. Ma è il venir meno della ragione politica della conta a privare il partito della verità  prima che della democrazia. Di questo ho il dovere di chiedervi personalmente scusa: di questo vi chiedo sinceramente scusa. Battersi per le proprie idee e battersi dentro le regole della democrazia prima che un diritto è un dovere per chi nella democrazia crede. E per chi crede nel partito come segno e strumento della democrazia che si intende costruire, battersi nel partito equivale a battersi per il partito.

Ed  è anche per riparare a questo che non mi sono sentito di sottoscrivere la candidatura di Francesco Rutelli, del quale non ho difficoltà  a riconoscere i meriti nello svolgimento del progetto del partito. Questo sopratutto perchè non condivido la associazione di questa candidatura alla categoria della unità  del partito contenuta nella motivazione che la accompagna. Non parlo della unità  del Partito per la affermazione del progetto dell’Ulivo alla quale non mi sono mai sottratto e mai mi sottrarrò. Mi riferisco invece alla unità  del partito per quel che riguarda la sua iniziativa. Una unità  che ritengo purtroppo troppo inadeguata per quel che riguarda il passato e inopportuna per il futuro.

In particolare per quel che riguarda il futuro come non rendersi conto che ci sono unità  che dividono e divisioni che uniscono? Come potremmo mai costruire un partito nuovo se i partiti promotori facendo appello alla loro unità  interna dovessero rinnovare le divisioni esterne? Come non apprendere la lezione che proprio su questo punto viene dalla nostra stessa storia? Come saremmo mai riusciti a mescolarci se i democratici avessero assunto come priorità  la loro unità  interna e i popolari avessero fin dall’inizio senza eccezioni difeso il monolitismo della loro storia?

E per lo stesso identico motivo, apprendendo dalla nostra storia immediata e passata, credo che dovremmo evitare nell’immediato mosse sbagliate che possono pregiudicare la novità  della storia che inizia. Evitare innanzitutto il riprodursi di ogni tipo di quote tra partiti, che rischierebbe oltretutto di registrare la nostra minorità  quantitativa dando così al nuovo partito non il segno di nuove aggregazioni politiche ad esso interne, ma il segno del peso elettorale e organizzativo dei partiti promotori. Evitare a cominciare dai voti che dovremo esprimere oggi ogni ripartizione interna a tavolino, inevitabilmente  finalizzata a registrare quote percentuali di potere da spendere poi all’interno delle quote di partito rese così necessarie. Fare di ogni elezione una occasione di scelta e di democrazia tra alternative definite dal futuro piuttosto che dar vita ad organigrammi concordati a partire dal passato.

Ed è a questo proposito, sotto la voce intitolata democrazia e verità , mi sia consentito mentre prendo atto con rammarico della scelta annunciata di Fabio Mussi di non aderire al nuovo Partito che ci apprestiamo a fondare,  e mentre tutti ci ripromettiamo di dimostrarne l’erroneità, permettetemi di riconoscere il contributo che ancorché nel dissenso lui ha dato alla nuova storia. Primo perché è grazie al suo no che i nostri si acquisiscono verità sottraendosi alla categoria delle cose scontate. Secondo perché la sua scelta ribadisce la natura personale e non collettiva della adesione. Terzo perchè il suo rifiuto della natura  scissionistica del suo gesto, l’ostinata difesa del suo essere una mancata adesione riconosce al partito che nasce la sua novità e non la sua continuità  con il partito che conclude la sua vicenda. Grazie Fabio faremo di tutto perchè tu ti ricreda.

Ed ora dopo il “come” fatemi tornare al “perché”. Perchè è da questo che dovremo iniziare tra i cittadini avanzando la nostra proposta.

Se non partiamo dal progetto, se non partiamo dall’inizio io credo che non si riesca a capire neppure di che cosa parliamo.

E partire dall’inizio significa partire dal mondo e allo stesso tempo dalle dalle speranze e dalle paure delle persone.

Partire dal mondo, dai paesi, pensate solo alla Cina e all’India, ma non solo pensando ai soli incontri che da Ministro della Difesa ho avuto di recente, all’Indonesia, agli Emirati Arabi, coinvolti in un processo impetuoso di sviluppo che si traduce in offerte e richieste a noi che siamo e appaiamo ai loro occhi paesi sviluppati e quindi in nuove occasioni di crescita.

Ma partire dal mondo significa partire anche partire dalle paure dei nuovi grandi paesi, dalla tentazione di difendere e sostenere o surrogare la loro crescita con la forza delle armi. Pensiamo alla drammatica domanda di parità che sta dietro al moltiplicarsi degli armamenti anche nucleari, alla competizione per il controllo delle risorse energetiche e quindi alla nuova spartizione delle aree di influenza geopolitica.

Di fronte a questa vita che ogni giorno ribolle sempre più, a questo movimento ogni giorno più impetuoso di persone, merci, idee, e cose, stanno le nostre speranze e le nostre paure.

Speranze e paure che non si accontentano delle risposte che volta a volta può  dare l’azione di governo anche se queste sono risposte di successo. Quale che sia il governo i successi del lunedì sono destinati ad essere messi in dubbio dai titoli dei giornali del martedì, se non addirittura dal telegiornale di lunedì sera.

No le speranze e le paure delle persone hanno bisogno di un tempo più lungo che leghi l’ieri al domani.

Se a questo non diamo una risposta a queste domande tornerà  a dare risposta il salvatore di turno, il capo populista del momento che come al solito riuscirà  ad intestarsi solo la fase di denuncia e contestazione lasciando alle spalle della sua caduta una costruzione che non arriverà  mai a compimento.

E’ in questo spazio che noi dobbiamo leggere la domanda di oggi.

Una domanda alla quale altri Paesi hanno dato una risposta nelle istituzioni incanalando questa ansia e questa speranza dentro un sistema consolidato di pesi e contrappesi e affidandola alla guida riconoscibile di una persona, ad una scelta diretta dei cittadini che consentendo periodicamente un riinizio danno alla speranza un appuntamento e alla paura un termine.

Penso alle elezioni imminenti in Francia, che non sono affidate al meccanismo del doppio turno ma alla possibilità  di pensare il futuro del Paese su un tempo lungo 10 anni.

Penso  alle troppo attese elezioni per la sostituzione di Bush in America.

Non è questo il nostro caso. No non è proprio il nostro caso.

Dopo aver intrapreso all’indomani della caduta del muro il cammino del cambiamento ci siamo fermati a metà .

Proviamo ad immaginare cosa sarebbe delle nostre città  province regioni e quindi dell’Italia se fossimo ancora alle giunte rissose e precarie della fase finale della Prima Repubblica? Certo non è che non veda i problemi. Ma provi ognuno ad andare con la memoria a quei tempi.

Ma come non riconoscere invece la radicale diversità  della situazione a livello del Paese nel suo insieme? Come non riconoscere che fino a quando non è concluso tutto nulla è concluso?

E’ qui appunto che entra in scena il mondo. Perché nel Mondo o ci si sta dalla parte di chi guida o prova a guidare i processi o ci si sta dalla parte di chi li subisce.

Ma per stare all’altezza del Mondo, la dimensione minima per starci è l’Europa, una Europa che parli con una voce sola. Ma perché l’Europa cresca e possa riprendere il cammino costituente interrotto che le da  questa voce c’è assoluto bisogno di un’Italia che arricchisca e riequilibri il contributo e le tentazioni dei Paesi caricati dalla loro storia recente dalla tentazione della autosufficienza.

Ma perché  questa Italia esista c’è assoluto bisogno di una guida forte, di un governo reso forte dalla azione politica e dalle regole istituzionali.

Non è questa l’Italia, che abbiamo di fronte, non è questo il governo del quale disponiamo.

Come non vedere i danni del cammino fatto a metà ? L’avanzare della tentazione delle piccole patrie? L’illusione della politica estera dei governi regionali? La totale indifferenza alla politica di difesa comune da parte dei governatori?
Come non vedere che i vantaggi e le virtù della Repubblica delle Autonomie senza una potere centrale si traducono in vizi e svantaggi?
E cosa dire della frammentazione del potere centrale, della drammatica dinamica divisiva alimentata dalla sciagurata legge elettorale imposta alla CdL dalla cultura e dalla politica di Casini?
Come non vedere che l’incapacità  di andare avanti nel processo di transizione istituzionale e la spinta all’indietro imposta dal porcellum se non trova velocemente un fermo può portare il paese indietro di decenni proprio mentre il Mondo ci chiede esattamente l’opposto?

Come meravigliarsi della regressione del paese al medioevo luogo della geografia non soggetto della storia dove potentati esterni scorrazzano in nome della giusta regola del mercato, e soggetti visioni e cultura si rincorrono in una spirale regressiva.

Arrivati a questo punto mi sembra difficile non riconoscere che siamo arrivati ad un bivio.

O il problema si risolve con una profonda riforma costituzionale che riconosca all’esecutivo la guida del Paese cercando a fondamento della sua forza la sua legittimazione in una elezione diretta da parte dei cittadini.
O mettiamo in campo dei partiti con una vocazione generale che offrano in competizione tra loro questa guida al Paese.

Non credo che esistano soluzioni terze.

Noi siamo qua per tentare ancora una volta la prima soluzione non limitandoci ad un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo.

Ma è a tutti evidente che per questo progetto non basta un partito qualsiasi.
Non basta un partito che all’interno del Polo di centrosinistra della democrazia bipolare si riservi di essere parte tra parti. Un partito che si pensi come la destra della sinistra per raccogliere più  voti e assicurarsi più posti in parlamento, lasciando ad altri il compito della sintesi di governo.

No! Noi abbiamo bisogno di un partito a vocazione generale, che riesca allo stesso tempo ad essere canale di comunicazione, segno e strumento della democrazia che proponiamo al Paese.

Un partito nuovo, e allo stesso tempo un partito aperto che esclude solo chi si esclude.

Un partito che unisce all’interno dell’Unione quelli che fanno prevalere le ragioni del governo sulla rappresentanza, la soluzione dei problemi piuttosto che la loro agitazione, le ragioni del futuro e del possibile su quelle del passato e dell’esistente.

Un partito che sa parlare ai cittadini sapendo che essi hanno il portafoglio ma anche il cuore.

Abbiamo voglia di cercare parole se dimentichiamo che la forza della comunicazione è affidata ai comportamenti e alla testimonianza delle convinzioni. Le belle frasi le possiamo leggere anche nei baci Perugina.

Ma ciò che indirizza la nostra attenzione e rafforza la nostra convinzione è la forza del messaggio che esse contengono. E questo non può che dipendere dalla coerenza di una vita.

Lo dico pensando ai messaggi di vita che ci vengono da Sturzo e di Borsellino che giustamente sono stati qua proposti alla nostra attenzione.
Questo è il Partito che ci chiede l’Italia per il governo del Paese.

Da oggi questo partito diventa possibile.

Non possiamo sbagliare.

Son sicuro che ce la faremo.