2222
1 Settembre 2006

Il disarmo ci sarà

Autore: Marco Damilano
Fonte: L’Espresso

Quali sono i rischi che corre l’Italia? E cosa si gioca il governo  Prodi sul Libano: i soldati, la credibilità del paese, la faccia?

«Chi è a rischio in Libano non è l’Italia, ma la capacità della  comunità internazionale di governare il mondo, di impedire la guerra  e di promuovere la pace attraverso l’Onu. L’Italia ha scommesso  sull’Onu: non è una novità, ma questa volta la posta è decisamente  più alta che mai. In questi giorni abbiamo sentito le voci che si  sono levate a denunciare l’azzardo. A ricordarci Sarajevo, il Rwanda,  la Somalia, il rischio che si possa perdere ancora una volta l’onore  o la vita, se non addirittura tutte e due. Ma noi abbiamo scommesso  lo stesso sull’unica speranza di cui il mondo dispone per il suo  futuro».

 

Non è una scommessa azzardata? Se le cose vanno male, sarà colpa del  governo?
«Non abbiamo agito da incoscienti. Abbiamo chiesto un’idea più chiara  dell’operazione, regole di ingaggio più esplicite e robuste, una più  efficace catena di comando. E siamo stati in prima fila nel prendere  l’iniziativa. In questi giorni arrivano le adesioni e si allontanano  le esitazioni: la nostra è ora una scommessa collettiva. Guai se  dovessimo mancare l’obiettivo. A subirne i contraccolpi non sarebbe  solo la pace tra Libano e Israele, ma la causa della pace nel mondo».


Nei giorni in cui l’Italia rischiava di rimanere sola, lei ha  brutalmente chiesto alla Francia: «quanti scarponi intendete  mandare?». Ha rovinato il gioco di Chirac?
«L’alternativa tra gli scarponi e le navi, tra boots e boats, tra la  disponibilità ad interporsi tra i contendenti e la tentazione di  tenersi al largo, era un’alternativa che attraversava molti, non solo la Francia. Penso tuttavia che la nostra determinazione abbia aiutato  la Francia a ritrovare se stessa: la storia delle sue relazioni col  Libano, che all’interno del Consiglio di Sicurezza l’aveva vista con  gli Stati Uniti protagonista nel varo della risoluzione 1701».



Partiamo, per fare cosa? Che succederà in caso di attacco di  Hezbollah su Israele, o viceversa? Il generale Mario Buscemi afferma  che disarmare Hezbollah è impossibile…

«E tuttavia, dico io, necessario. Il loro disarmo però non è  l’obiettivo di ogni singola azione, ma il risultato di un processo. È  il risultato dell’affermazione e del rafforzamento dello Stato  libanese, dell’intestazione a quello Stato del monopolio esclusivo  della forza nel suo territorio. Un processo che è affidato alla  politica più che allo strumento militare».

 

Ma è questa la perplessità di molti generali. Operazione più politica  che militare, si lamentano, con il contingente in mezzo.

«Perplessità? Io ho fatto di più che esprimere perplessità, ho  manifestato giudizi. All’interno del governo e davanti al Parlamento  ho detto che la missione si prospetta lunga, impegnativa, costosa e  rischiosa. E l’ho ripetuto il giorno dell’inizio della missione di  fronte al contingente ormai in navigazione. Ma la prudenza è una  virtù dell’azione: una consigliera per chi cammina, non per chi se ne  sta a letto. Per questo ho ascoltato le critiche e i consigli di chi,  come gli ex comandanti di missione, hanno esperienza al riguardo. Li  ho ascoltati per farmene carico».



Mastella chiede ora di tagliare le truppe in Afghanistan, dato  l’impegno in Libano. Lo stesso fa l’ala radicale della coalizione. Se  ne può discutere?

«Certo che se ne può. Tenendo tuttavia distinto il piano delle  risorse disponibili da quello della opportunità politica. Il piano  del dovere da quello del potere. E, soprattutto, ricordando che in  Afghanistan abbiamo preso come paese degli impegni internazionali che  non ci consentono decisioni unilaterali, ma ci chiamano a  condividerle con i paesi alleati».

 

La sensazione è che la missione in Libano, oltre a tutto il resto,  sia provvidenziale per salvare la poltrona del capo del Sismi. Il  governo conferma la fiducia a Pollari nonostante le gravi accuse?

«Quello che il governo conferma è innanzitutto il riconoscimento del  ruolo determinante dell’intelligence per la sicurezza del paese,  imprescindibile sopratutto nelle operazioni di peace keeping, e  l’apprezzamento per il prezioso lavoro svolto dal Sismi. Certo, un  apprezzamento che non è scindibile da quello per le persone che lo  svolgono e per chi ne è alla guida».

 

Si parla di troika Prodi-D’Alema-Parisi. Con Prodi la sua armonia  è  proverbiale. Con D’Alema è nato un feeling?

«Se ci sono rapporti che si sono svolti  sempre alla luce del sole  sono proprio  quelli tra me e D’Alema: nel consenso e nel dissenso.  Consensi e dissensi che non sono mai stati di carattere personale, ma  di natura nitidamente politica…».

 

Sul tema c’è una vasta letteratura in proposito, dal complotto contro Prodi  del ‘98 in poi…

«Ma anche i contrasti più aspri non hanno mai messo in dubbio i  fondamenti della nostra comune ispirazione riformista. Anzi, per  certi versi li ha rafforzati. La sintonia e la concordia che hanno  connotato la nostra collaborazione in questo passaggio sta da sola a  dimostrare che dodici anni di Ulivo non sono passati invano».


Visto che è in vena di generosità, come giudica il dialogo con il  centrodestra che si è sviluppato sul Libano? Se dovesse cadere Prodi,  potrebbe nascere un nuovo governo di Grande coalizione?

«La mia posizione non è cambiata.  Guai se il dialogo su temi che per  loro natura chiamano il paese e il Parlamento alla più ampia  convergenza, dovessero mettere in discussione la distinzione tra  maggioranza e opposizione. Per la democrazia la distinzione è non  meno importante del dialogo. Anzi, è proprio la distinzione a dare  senso e valore al dialogo».

 

La troika Prodi-D’Alema-Parisi guiderà anche il  Partito democratico?

«La troika di cui parlano i giornali è limitata a un compito di  governo. Anche se sul Libano con Prodi i cavalli chiamati a tirare il  carro siamo stati io e D’Alema, non posso dimenticare che a tirare il  carro del governo di cavalli ce ne sono altri ventidue, ognuno  determinante».

 

Il Partito democratico è il grande assente: lei aveva chiesto  primarie su un manifesto programmatico, non si è fatto granchè…

«Ci siamo lasciati con la prospettiva di un seminario che avvierà il  confronto culturale che avevo auspicato. Sono sicuro che arriveranno  preziosi stimoli: ma se dicessi che la tensione politica in corso è  adeguata all’obiettivo direi una bugia. È difficile negare che in  questi mesi gli impegni di governo, se non distratto, ci hanno  assorbito oltre le nostre stesse previsioni».

 

Chi frena sul Partito democratico? Se siete tutti d’accordo perché  non si va avanti?
«Forse è l’eccesso di accordo a frenare il processo. A volte sento  affiorare l’argomento che affossa i fidanzamenti infiniti. Perché  sposarsi, se si sta così bene così? Ognuno a casa sua e il tempo  libero assieme. Poi il tempo passa e non solo il matrimonio svanisce,  ma il rinvio di ogni progetto di vita allontana il futuro e consuma  pian piano il passato. Per questo dico che non si può continuare a  lungo così. È bene che il tempo delle decisioni si avvicini».

 

Rutelli è diventato il grande sostenitore del Partito  democratico:  «se non si fa cade il governo», ha dichiarato. Condivide?

«Condivido la nuova riflessione di Rutelli: l’insistenza che il  Partito democratico, pur nella continuità dell’Ulivo, debba essere un  partito nuovo, chiamato a dare risposte nuove a problemi nuovi, non  la continuazione di nessuno dei partiti promotori, e neppure la  federazione dei partiti esistenti. Se svolgerà questa linea

Rutelli  non può che avere il mio sostegno».

 

Per la leadership del nuovo partito girano i nomi che hanno guidato  il centro-sinistra fin qui: Fassino, Rutelli, Veltroni. Non c’è  bisogno di un salto generazionale?
«Finora più che di salto ho sentito parlare di passaggio  generazionale. È evidente a tutti che in un paese in cui sono  considerati giovani i cinquantenni c’è qualcosa che non va. Da qui ad  immaginare processi di ricambio a tavolino ci passa molto. Anche  perché in politica è difficile che la leadership venga conferita  dall’alto».


Almeno una fusione si è fatta: quella tra San Paolo e Banca Intesa.  Lei nel 2000 propose Bazoli come candidato  premier del  centrosinistra. Nasce la banca ulivista? Nessun rischio di confusione  politica-economia, in questo caso, come quello che lei denunciò un  anno fa sul caso Unipol?

«Guardi, perché una banca possa essere definita ulivista non basta  che alla sua guida ci sia un cittadino di orientamento ulivista,  soprattutto se l’ulivista ha il senso delle istituzioni e il senso  dell’autonomia dalla politica che ha Giovanni Bazoli. Fu proprio per  rispettare questa autonomia che Bazoli non potè prendere in  considerazione la proposta che allora gli fu avanzata. La confusione  tra economia e politica che ho segnalato non riguarda le persone, ma  la connessione più o meno diretta tra organizzazioni della politica e  organizzazioni dell’economia».