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9 Ottobre 2013

IL BERLUSCONISMO NON E’ FINITO. FINIRÀ SOLO QUANDO IL CENTRO DESTRA TROVERÀ UN NUOVO LEADER. Goffredo Pistelli, Italia Oggi

Ulivista della prima ora, democratico ante-marcia, Arturo
Parisi, classe 1940, docente universitario, e già ministro
della Difesa prodiano, ha vissuto politicamente in prima
persona il ventennio berlusconiano, quello che, secondo
Enrico Letta, sarebbe finito.



Domanda. Professore è davvero finito il Ventennio
berlusconiano, come ha detto il premier?


Risposta. Non credo. Forse, e sottolineo il forse, il
ventennio di Berlusconi, non certo quello berlusconiano.
Questo sarà finito non quando Berlusconi sarà di nuovo
sconfitto, come ho sentito rispondere a Letta da sponde Pd.
In questi venti anni Berlusconi è stato già sconfitto due
volte. E sconfitto tra i cittadini non da una oscura
manovra di palazzo incoraggiata e favorita da una condanna
giudiziaria. La stagione di Berlusconi finirà solo quando
il centrodestra troverà un leader nuovo perchè investito da
una propria legittimazione popolare, a prescindere da
Berlusconi e non invece grazie ad una investitura
proveniente in toto o in parte da lui stesso. Se, come
temo, un ventennio è finito è quello aperto nel ’94 dal
maggioritario introdotto dai cittadini col referendum del
’93. Ma come chiamare berlusconiano un periodo nel quale
dei 12 governi che si sono succeduti, 6 sono stati guidati
da esponenti di centrosinistra, 4 dal centrodestra, e 2 da
tecnici centristi come Monti e Dini?  D. Secondo lei che ha affrontato B. da avversario in questi
lunghi anni, che cosa farà in caso di decadenza? Davvero
guiderà il Pdl dagli arresti domiciliari o la sera, di
rientro dal lavoro ai servizi sociali? O c’è il rischio di
un finale più “camainesco”, nel senso del film di Moretti,
come sostiene qualcuno.


R. Prima che una malattia o una vocazione, per Berlusconi,
la politica è una necessità. Così è stato all’inizio della
sua discesa in campo, così sarà fino alla fine. Di fronte
alla tigre politica, come nessun altro in una democrazia
,invece di affrontarla o fuggire, ha scelto di  cavalcarla,
sapendo che la sua ferocia non consente a nessuno di
scendere dalla sua groppa senza rischiare di finire
sbranato. Proverà perciò fino alla fine a cavarcarla. Non
basterà a sgropparlo nè una sentenza che lo costringe fuori
dalle istituzioni, e neppure l’abbandono di una parte dei
suoi.



D. Secondo lei, che natura hanno questi movimenti nel Pdl:
nasce un soggetto politico nuovo, più europeo, o c’è un
disegno neocentrista di prospettiva un po’ più bassa?


R. Prima che un disegno il centrismo è una dinamica e ancor
prima una cultura. L’idea della politica come compromesso,
non come scelta, e scelta tra proposte di scelta. Al di là
del riferimento alle etichette europee è questo il rischio
oggi presente. La fine della idea che in ogni momento
esistano più alternative, la convinzione che la soluzione
sia sempre una sola. La convinzione che si possono pure
cambiare i suonatori purchè la musica resti la stessa. Il
rischio è la resa alla continuità, la denuncia del
cambiamento come illusione. Quello che temo non è il
pessimismo della ragione, ma il trionfo della indifferenza,
l’abbandono di ogni tensione ideale con la scusa della fine
delle ideologie.  D. Il neocentrismo sarebbe quello che nasce da due sponde:
una a destra ma una a sinistra.
Lei che è sempre stato un propugnatore del maggioritario,
vede questo pericolo come reale?


R. E’ appunto questa la mia preoccupazione. Troppi sono i
segni premonitori. Dalla spinta al tornare al proporzionale
con l’intenzione di correggere l’eccesso maggioritario che,
grazie al Porcellum, ha trasformato alla Camera il 25% dei
voti Pd nel 47% dei seggi. Alla diffusa nostalgia del bel
tempo antico che ha consentito, ad esempio, a Letta di
cantare recentemente in Parlamento le lodi della stabilità
dei governi dei primi 25 anni della nostra democrazia
tralasciando il dettaglio che gli anni furono sì 25 ma i
governi furono 27. No. Non è questa stabile instabilità che
serve all’Italia, nella quale la stabilità è quella che ci
è imposta dal quadro esterno e l’instabilità è quella
prodotta e riprodotta continuamente nei rapporti interni.
Nè possiamo accontentarci di misurare la stabilità
attraverso la durata. La durata è infatti la semplice somma
dei giorni passati, la stabilità è invece la possibilità di
progettare quelli futuri.



D. Il Pd, il partito che lei ha contribuito a fondare, va a
congresso l’8 dicembre. Lei crede che questo ampio
convergere sul tentativo di Matteo Renzi sia del tutto
genuino o c’è la voglia di condizionarne il futuro operato?


R. Diciamo intanto che congresso è una parola grossa. Una
parola che possiamo usare se pensiemo al vuoto assoluto di
democrazia di altri partiti. Solo quelli che ricordano cosa
furono i congressi di partito prima che i partiti
morissero, sanno a che cosa questo nome corrisponde.
Soprattutto se vanno con la memoria ai drammatici congressi
che decisero di svolte come fu il passaggio dal centrismo
al centro-sinistra, o la stagione della solidarietà
nazionale. La conta di massa che si prospetta per l’8
dicembre potrà assomigliare e io auspico addirittura
superare la verità di quei congressi solo se riuscirà a
mettere al suo centro il giudizio sulle scelte che hanno
portato il Paese e il Partito nella difficoltà presente, e
sulla linea di azione che sotto la guida del governo
dovrebbe tirarcene fuori. Sento invece sostenere da troppi
che sulle prime non è il caso di tornare e sul governo non
è il caso di entrare. Sarebbe un disastro se la sera dell’8
dicembre sapessimo ancora una volta troppo della persona
che ha vinto, ma non altrettanto della linea sulla quale ha
vinto. Questo significa che la vittoria di un candidato
nuovo come Matteo Renzi è comunque un fatto innovativo
destinato a riaprire giochi troppo presto chiusi. Non
foss’altro perchè, a differenza di quel che nel Pd non è
ancora avvenuto, e di quello che nel Pdl non è neppure in
vista, Renzi è sceso in campo senza chiedere il permesso a
nessuno, e meno che mai sostenuto o continuatore della
”ditta che ha affondato il Pd al momento della sua
fondazione. La sua vittoria sarà tuttavia una vittoria
politica e non soltanto personale, quanto più la sua
proposta riuscirà a sfuggire a quel ma‑anche che ha
impedito finora la nascita del Pd. Solo una linea nitida
può costringere gli esponenti che sempre più numerosi
stanno ancora una volta correndo in soccorso del vincitore,
a fare scelte nuove e a rivedere le scelte vecchie. D. Se, come pare, il sindaco di Firenze diventasse
segretario, quale scenario realistico si può immaginare fra
lui e Letta?


R. A decidere dei loro rapporti non sarà certo solo la loro
personalità così evidentemente diversa e neppure i loro
ruoli sicuramente distinti, ma, come ho detto, la diversa
linea politica della quale, al di là della personalità e
dei ruoli, sono oggettivamente portatori. Come dimenticare
che i due sono arrivati a ricoprire i ruoli che ricoprono a
partire da scelte politiche non solo diverse ma
alternative. Come ignorare che il futuro da essi evocato
per la nostra società e la forma della nostra democrazia se
non è alternativo è certo diverso. Ecco perchè ritengo che
a questo proposito la chiarezza non è mai troppa. Se patti
chiari consentono amicizie lunghe, patti chiarissimi
possono costruire amicizie lunghissime. Ma patti chiari e
amicizie politiche. Da qualche parte ho visto Renzi
sostenere  che la sua età gli consente di aspettare dieci
anni. Altrettanto non si può tuttavia dire per le
prospettive che la sua proposta ha aperto. Se sul piano
personale lui può pure attendere il suo turno, non così è
per l’Italia. Il Paese attende la nostra scelta con
urgenza. Adesso!