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14 Marzo 2004

Congresso Federale DL-Margherita

Care amiche, cari amici, come vedete sono qua. Non lo dico per voi, lo dico per i giornalisti che mi stanno aspettando alla stazione di Rimini al binario n.1 per Bologna.


Care amiche, ben altri sono i temi dei quali vorrei oggi parlare.


Ben altri sono i problemi che dovremmo oggi affrontare, anche se so che abbiamo la fortuna dell’intervento di Giuliano Amato che è stato a tutto campo.


Basterebbe scorrere i giornali di oggi, ripassarsi i giornali di ieri, immaginare quelli di domani, e ancora una volta dovremmo parlare del disastro innanzitutto verso il quale lo sciagurato governo della Destra sta portando il Paese.


Ancora una volta dovremmo trarre spunto da questo o quel provvedimento per denunciare la dissoluzione del tessuto sociale prodotto dall’azione del governo e ancor prima la dissipazione del capitale morale prodotta dalla ispirazione politica che la guida.


Ma questa denuncia, così come la proposta di un’alternativa, è appunto il compito che affidiamo alla nostra fatica quotidiana.


Oggi possiamo limitarci a ripetere con Francesco Rutelli la domanda che ci viene dal Paese: la necessità che il governo vada battuto e poi battuto ancora e poi ancora battuto e alla fine costretto dal voto degli italiani ad andarsene a casa.


Non è per questo che abbiamo proposto la Lista unitaria, ma noi sappiamo che è con questa intenzione che molti italiani la voteranno.


Ed è perciò che noi ci sentiamo chiamati a costringere il Governo – ad accompagnarlo, aggiungo io – nella casa dalla quale era partito, nella pancia oscura dalla quale ha preso le mosse, nella pancia dalla quale ha tratto alimento, nella pancia alla quale ha fatto appello per la sua sopravvivenza. In quella pancia che viene talvolta contrapposta alla nostra preferenza per il cuore e per la testa, quando si vuole spiegare la nostra sconfitta. Riaccompagnato a casa perché in quella pancia gli umori del berlusconismo siano finalmente digeriti ed evacuati definitivamente dall’organismo del Paese.


Di altro dovremmo oggi parlare e innanzitutto del sangue – fate aggiungere la mia voce come memento – del sangue che arrossa ancora una volta l’orizzonte di un nostro incontro.


“Non citarli” – mi è stato detto – “qualcuno potrebbe pensare che portiamo sfortuna”. E invece io voglio citarli, qui, a conclusione del Congresso per ricordarli appunto, per riportare al nostro cuore i morti, le migliaia di morti. Dei nostri morti dell’11 settembre, che segnarono la vigilia di quella che doveva essere la nostra prima festa di partito.


L’uccisione del nostro caro Marco Biagi, nella nostra, nella mia Bologna alla vigilia del Congresso costitutivo.


La strage di Nassyria dei nostri ragazzi, morti in missione di pace in una guerra che il popolo italiano, tutto il popolo italiano ancora rifiuta con la mente e col cuore.


Ed oggi – alla vigilia di questo incontro – questi 200 europei, morti in terra di Spagna per mano del terrorismo assassino.


Morti per ricordare a noi l’Europa come comunità di destino, come ci ha detto ieri Romano Prodi.


No, cari amici, non è questione di sfortuna!


Ho provato a ripassarmi questi nostri primi 31 mesi di vita: solo pochi si sono sottratti al segno del sangue e della morte.


La verità è che – come ci ha ricordato Francesco Rutelli con le parole di Bob Kennedy – compito della politica è rendere dolce la vita sulla terra.


Ma non possiamo dimenticare che Bob Kennedy non ci ha solo lasciato detto – e lo dico ad Ermete Realacci che ieri lo ha citato nuovamente – che compito della politica è rendere dolce la vita sulla terra, ma che per rendere dolce la vita sulla terra, la politica ha il compito di addomesticare l’istinto selvaggio dell’uomo. E Bob Kennedy non ce lo ha detto con le parole, ahimé, ma ce lo ha lasciato detto con la sua vita, anzi con la sua morte, una morte ancora una volta per mano assassina e terrorista.


No, care amiche e cari amici, non possiamo farci illusioni.


Il sangue è una voce che interpella ogni giorno la politica perché svolga il suo compito. Il sangue sta a lì a misurare il nostro fallimento.


Sta innanzi tutto in questo la grandezza della nostra vocazione.


In questo, in ogni morte, in ogni morto evitato, la ricompensa alla nostra fatica.


Ed ora veniamo al partito, perché è di questo che siamo venuti qui a parlare. Innanzitutto per rallegrarci per il cammino fatto, per ringraziare quanti hanno consentito al partito di fare tanto cammino in così poco tempo.


A cominciare dai tanti, da quanti pur avendo lavorato duro non sono qua tra noi ma affidano alla nostra rappresentanza la loro presenza.


Dall’amico seduto nell’ultima fila fino a quanti seggono qua sul palco, per finire con Francesco Rutelli che in questi anni ha avuto il compito di guidare e di rappresentare, di comunicare questo lavoro.


E poi – per continuare il discorso sul noi che ho visto attraversare molti degli interventi – per dire che il partito è il nostro comune capitale sociale, il ponte tra l’io e l’altro, tra il passato e il futuro.


Quel ponte che dà senso al nostro io, qui, ora.


Il luogo nel quale noi mettiamo alla prova la nostra capacità di dare testimonianza ai valori che ispirano la nostra idea di società.


Certo il luogo della libertà e della uguaglianza, per rifarci alle insuperate, ed ahimè tradite, domande della Rivoluzione Francese, ma anche della domanda di fratellanza.


Direi prima ancora della domanda di fratellanza, la cui dimenticanza è all’origine del fallimento di questa rivoluzione.


“Voletevi bene”, ci ha esortato Scalfaro, ricordiamo tutti la passione di questo invito. Ed ha aggiunto – muovendo dalla sua esperienza che sa che l’amore non nasce dalla volontà – “almeno esercitatevi a volervi bene”. Esercitiamoci – dico io – e se vogliamo che questo valga per la società per la quale lavoriamo, deve valere innanzitutto per il partito.


Mi accontenterei che cominciassimo a rifiutare nel partito la tentazione di socializzare le perdite e privatizzare i profitti.


Il che equivale a rifiutare di intestare a noi le sconfitte e all’io i successi. Lo dico innanzitutto per me.


Ed ora due risposte a due domande, alle due domande che sono state poste intenzionalmente, e in qualche modo mi avevano come interlocutore.


Per lasciarle definitivamente al verbale del partito e per soddisfare la contesa in gran parte nominalistica ad uso del largo pubblico che ha occupato in questi giorni le pagine, ahimè molto successive alla prima, dei giornali.


Qual è il nostro orizzonte politico, innanzitutto. Cioè a dire, la nostra posizione, la nostra direzione, mi è stato chiesto, ci si è chiesti, ci chiediamo.


Ma il nostro orizzonte non è solo nostro, questo è il primo punto.


Il nostro orizzonte è definito dall’orizzonte comune della politica italiana, del nostro sistema politico.


Dall’orizzonte esistente e da quello per il quale lavoriamo.


Il problema, ha ragione De Mita, è quindi il bipolarismo.


La Margherita nasce appunto da questa scelta, dall’incontro delle nostre forze su tre punti che voglio ricordare.


Primo: il giudizio su quella che giustamente Scalfaro ha rifiutato di definire la Prima Repubblica, ma che noi abbiamo concordato di chiamare il primo tempo della Repubblica. Un giudizio che si nega e rifiuta la categoria del fallimento e – viceversa – affida il bilancio di questa stagione alla categoria del compimento.


Secondo: l’accettazione positiva, positiva, della seconda stagione della repubblica che noi sappiamo aperta non dai giudici di Milano, ma aperta da un processo politico molto più complesso e più grande.


Che data, innanzitutto, dalla nostra iniziativa politica, una iniziativa di gran parte delle persone che sono state qui, a cominciare da Ciriaco De Mita che ho qui di fronte. Una seconda stagione che è intitolata e che noi continuiamo ad intitolare alla democrazia governante, alla necessità di passare – lo ripeto ancora una volta – da una democrazia preoccupata soprattutto dalla rappresentanza ad una democrazia che mette al suo centro la questione del governo.


E terzo: la determinazione a costruire all’interno di questo schema la coalizione di Centrosinistra.


Questo lo abbiamo scritto sulla Carta dei Princìpi, io lo so, ma – e da questo punto di vista sono assolutamente d’accordo con Ciriaco – non basta scriverle queste cose.


Così come le abbiamo scritte, assieme, così dobbiamo rileggerle assieme. Così come stiamo leggendo e rileggendo lo stesso Statuto, che avevamo scritto e dimenticato.


Anche la Carta dei Princìpi deve essere ripresa nelle nostre mani, riportata a dibattito, perché nulla è scritto una volta per sempre.


E le nostre scelte crescono nella misura in cui sono approfondite, portate sul piano della convinzione, lo vorrei dire con la zeta dolce come la dici tu.


Ma è solo in questo contesto, nell’accettazione e nell’assunzione di questi tre punti, che noi possiamo declinare la nostra teoria del partito, la nostra scelta per quello che riguarda la nostra posizione, la nostra scelta per quello che riguarda la direzione.


Nel bipolarismo – lo ripeto, e qui vado evidentemente telegrafico – non esistono partiti di Centro.


Non esistono – lo ha ripetuto Dario Franceschini – spazi predefiniti, preattribuiti, che collocano ogni partito in un rapporto biunivoco in uno, e uno solo, spazio.


Tutti i partiti sono chiamati a rispondere con proposte di governo alla domanda di governo che viene dal Paese.


Nessuno può compiacersi della propria cultura di governo e alzarla sul pennone come la propria bandiera, se questa lo contrappone a partiti della coalizione che non si definiscono partiti di governo, che assomigliano a quella PDS a cui ha fatto riferimento ieri Castagnetti nel suo intervento; la PDS tedesca che, appunto, assume il rifiuto del governo come un elemento qualificante.


La differenza fra partiti, quindi, è una differenza di accettazione del processo e allo stesso tempo della storia. Della storia.


Da questo punto di vista il rapporto fra noi e gli altri partiti è un rapporto tra storie, oggi lo ha detto bene Massimo D’Alema in un intervento che è stato pubblicato su Europa come saluto al nostro Congresso.


Il rapporto non è fra il Centro e la Sinistra, ma tra Democrazia è Libertà e i Democratici di Sinistra, con il loro nome e con la loro storia. Sapendo che si tratta di storie complesse non riconducibili in schemi che sono una volta per sempre ridefiniti in termini di spazio. Lo dice D’Alema spiegando, da par suo, posizioni che furono prima nostre.


Ma – per evitare che leggiate questo come una rivendicazione orgogliosa – voglio ricordare che noi stessi abbiamo appreso questa lezione dalla storia. Non è male ricordare – lo dico a qualcuno che mi individua come il primo definitore dell’Ulivo – che l’Ulivo fu inizialmente pensato all’interno del contesto che oggi denunciamo.


L’Ulivo è la Quercia, prima che diventasse l’Ulivo di tutti.


L’Ulivo è la Quercia. La lezione noi l’apprendemmo dai cittadini.


E nonostante fossimo culturalmente preparati – a questo punto posso parlare io perché è appunto lì l’intestarmi una arretratezza e un arretramento che mi spinge a prendermi le mie responsabilità – lo apprendemmo dai cittadini,  che nell’arco di tre mesi ci mandarono il messaggio che quello schema non funzionava, che noi dovevamo assumere tutto intero il progetto della coalizione come un progetto di governo comune.


E in questo contesto possiamo dire solo che i partiti che condividono lo stesso progetto di governo sono in qualche modo destinati ad incontrarsi, più o meno come un grande evoluzionista cristiano, Thaillard de Chardin,                 disse “tutto ciò che cresce” – lo ricordo a quelli della mia generazione – “è destinato a convergere”.


Tutti siamo chiamati a svolgere lo stesso compito come in una classe scolastica e tuttavia tutti sappiamo che la nostra storia ci spingerà a svolgerlo in modo diverso.


A proposito della Margherita, in un focus group che abbiamo proposto, gli intervistati chiamati a chiedere quale fosse una definizione sintetica del nostro partito, hanno detto “sono quelli della soluzione dei problemi”.


E’ una definizione che mi piace, è una definizione che io proporrei come una definizione comune.


Quelli dalla parte della soluzione, non quelli dalla parte del problema.


E tuttavia guai – lo dico adesso – se gli altri partiti della coalizione,  della coalizione di governo che noi stiamo costruendo, fossero dalla parte del problema e non dalla parte della soluzione.


Perché sino a quando gli altri non condivideranno il nostro stesso orizzonte, la nostra prospettiva, noi avremo perso la nostra battaglia.


Ed è in questo contesto – lo dico a Marini – che affrontiamo ancora  una volta, mi auguro una volta per sempre, il tema del centrismo. Se le parole fossero disponibili – ma le parole non sono disponibili, lo vedo anch’io quando mi trovo incollato ad uno “sciogliamoci”, ad uno “scioglietevi” dai titoli caricaturali dei giornali – se le parole fossero disponibili, noi dovremmo definire la Margherita centrale nella posizione e centrista nella direzione.


Esattamente l’opposto del modo con cui De Gasperi definì – è una vulgata – la Democrazia Cristiana centrista nella posizione e, viceversa, invitata a guardare a sinistra nella direzione.


Esattamente l’opposto.


Il compito della Margherita in questo contesto non è portare i voti del centro alla sinistra, in nome della sua mezza verità.


Il compito della Margherita è portare tutta la coalizione su posizioni di governo.


E’ in questo contesto che io leggo il successo e condivido il significato delle proposte di Francesco che negli ultimi tempi sono state accolte con successo.


Non nel segno di una identità parziale, ma – lo abbiamo detto, lo ripetiamo qui – proposte alla coalizione per il governo del Paese.


Ed è perciò che mentre ribadisco l’interesse, la condivisione, la necessità di aprire un dibattito – un dibattito che è arrivato anche ad ulteriori sviluppi sui singoli temi – sono preoccupato per la lettura.


Perché la mancata definizione esatta del destinatario del messaggio può portare ad equivoci.


Io preferisco, noi dobbiamo preferire la critica, la correzione fraterna degli alleati agli applausi degli avversari.


Ed è in questo stesso contesto che, passando alla seconda domanda, affronto il problema dello scioglimento.


Ma di che cosa parliamo? Ma dove? Ma ci può essere qualcuno così miope, fatemelo dire scemo – scemo – che pensa di abbandonare una casa senza essersene predisposta una nuova?


C’è qualcuno che può essere così miope, scemo, che pensa di abbandonare la propria casa per andarsi a trasferire in una casa altrui? Senza che neppure poi a questo punto gli venga più rivolto l’invito?


L’abbiamo detto a D’Alema, per l’Italia: non siamo disposti a “cose due”, a “cose tre”, e a “cose quattro”.


D’Alema lo ha capito, perché leggiamoci, leggetevi il testo oggi, lo ha capito! D’Alema ha letto attentamente, si è confrontato con il nostro ragionamento e con la nostra proposta. Ed è per questa attenzione che lo rispettiamo.


Per lo stesso motivo – ripeto una proposizione formulata da Franceschini – noi lo invitiamo a riconsiderare lo stesso obiettivo per quello che riguarda all’Europa. Perché il ragionamento è lo stesso, l’abbiamo formulato con una immagine, prima, confrontandolo con la proposta di Giuliano Amato e D’Alema su Italianieuropei “per una nuova casa dei riformatori in Europa”. Con l’immagine “non si mette vino nuovo in otri vecchi”, è stato ripetuto da Romano in connessione con il lancio della proposta della lista unitaria. Non ci preoccupiamo per questa difficoltà a capirci.


D’Alema, Giuliano, sa che noi apriamo qui un confronto che si prenderà tutto il tempo che è necessario sino a quando ci capiremo.


Noi sappiamo che tutti assieme dobbiamo lavorare per la prospettiva di un soggetto nuovo.


Ed è per questo che noi abbiamo insistito e insistiamo e continueremo ad insistere perché in Europa si lavori per un gruppo unico, con la consapevolezza di tutti i limiti con i quali dobbiamo confrontarci.


Ma noi abbiamo pazienza, importante è capire quale è la direzione.


Quando, scioglimento?


A questo punto, come vediamo nel dibattito, il tema dal se è passato al quando.


Lo abbiamo visto in un intervento di Franceschini, che ha ricordato oggi che conviene essere realisti, pensare di assumere una prospettiva di superamento del nostro limite.


Ieri abbiamo visto Marini che ha ipotizzato due congressi.


D’Alema stesso oggi gli faceva il conto, quattro anni.


Ciriaco è andato più in là, tre congressi, sei anni.


Consentitemi di dire: non sono d’accordo!


Vi considero tutti troppo ottimisti e in qualche modo meno ambiziosi.


Più ottimisti di quel che è possibile, meno ambiziosi di quel che è necessario.


Il processo che noi abbiamo aperto è un processo di lunga durata. E’ un processo che ha una ambizione tale che non può immaginare di concludersi in poco tempo.


Ed è perciò, e non per sfidarlo, che ho posto e manifestato la mia comprensione per la fatica di Fassino.


Non per sfidarlo. Perché tutti noi ci rendiamo conto del grande cammino che è stato fatto in avanti da un partito che più di tutti si è confrontato con la sua identità, sino – e qualcuno lo ha ricordato – ad essere definito “il partito” per eccellenza.


Qualcuno ricorda che c’è stato un tempo in cui nel meridione d’Italia la Democrazia Cristiana era la Democrazia e il partito Comunista era il Partito.


E quindi noi sappiamo chi, appesantito da questa tradizione, e quanto è il prezzo pagato, di presentarsi alle prossime elezioni per la prima volta senza il proprio segno di riconoscimento dopo il ’48.


Ed è per questo, non per  sfida, che noi abbiamo espresso, che io ho espresso la mia comprensione.


Ma noi sappiamo anche che i cammini di mille miglia iniziano con un passo, come ci ha ricordato nella parte conclusiva del suo messaggio sull’Europa Romano Prodi.


E soprattutto che hanno bisogno di un sogno per essere guidati. Di un sogno.


Ma questo sogno intanto è realizzabile se i partiti al loro interno anticipano già l’approdo finale, tutti i partiti. Tutti i partiti anticipano l’approdo finale, si fanno plurali, accoglienti di tutte le storie.


E’ la risposta che mi ha dato – torno all’io – Veltroni nel Congresso di Torino “venite qui, qui ci sono tutte le storie delle tradizioni democratiche italiane da Gobbetti – ci disse ricordando Torino – ai cristiano-sociali, ai laburisti, questa è la casa, le porte sono aperte, entrate”.


Noi sapevamo che questo non era praticabile per la gran parte dell’elettorato che fa riferimento oltre i confini.


Oggi questa è diventata una acquisizione comune.


Ed è in nome di questa acquisizione comune che è partita la Margherita. Come una esperienza. Come una esperienza che si fa accogliente di tutte le storie, ma una esperienza che non pensa di mettere le storie del passato.


E’ una esperienza pensata per il futuro, pensata per Alì, per Mohamed, per Tatiana, per Ivan, per gli Alì, i Mohamed, le Tatiane e gli Ivan che stanno arrivando dalle nostre frontiere.


Noi immaginiamo che nasca in Italia il partito dei Musulmani democratici? Noi immaginiamo che nasca in Italia il partito degli ortodossi democratici? Noi sappiamo che nel mentre ci battiamo in Parlamento per una nuova legge sulla cittadinanza – ho qui presente Fioroni – che abbandona la legge dello ius sanguinis per lo ius soli,  noi dobbiamo costruire assieme una casa finale che si faccia accogliente per tutti i cittadini e per tutte le cittadinanze dei partiti che anticipino questa cittadinanza.


Ed è in nome di questo, di questa prospettiva lontana ma nello stesso tempo immediata che noi riteniamo che debba essere riproposto il sogno e dichiarata la nostra impazienza.


Ed è perciò che chiediamo che il partito sia costruito come un partito secolarizzato – lo abbiamo scritto – ridotto allo stato laicale – c’è scritto nella Carta dei Princìpi – deideologizzato, ma tuttavia non secolarizzante. Un partito nel quale sia possibile – sia possibile – a esperienze e idee forti di arrivare a confronto.


Non un partito finalizzato alla omologazione, sulla base di una identità debole.


Questo è il partito secolarizzato e non secolarizzante.


Un partito dove ognuna possa, si senta chiamato a mettere in comune le proprie esperienze, senza nascondere il proprio passato.


Non un partito dove ex comunisti siano tentati, come vediamo tutti i giorni, di farsi passare per monsignori.


O socialisti si trasformino in uomini di destra, senza dichiarare questa conversione.


O ex fascisti dichiarino la conversione, senza dar testimonianza concreta del phatos che noi ci attendiamo dietro a queste conversioni.


Noi vogliamo un partito nel quale assieme agli ex democristiani sia consentito anche agli altri l’orgoglio di rappresentare la propria esperienza. A tutte le storie che sono già presenti nella Margherita.


Ho una ricerca che già da conto – vedi Europa dell’altro ieri – che già da conto di questa pluralità.


Guai se guardando le percentuali uno si bloccasse.


Perché noi sappiamo che il partito riflette l’elettorato e anticipa l’elettorato. E quindi il partito per il quale noi lavoriamo è un partito nel quale tutti siano chiamati a dichiarare i propri valori, senza indossare – come mi capita di vedere – aggettivi, citazioni, letture che si capisce che sono appiccicaticce, messe solo lì per compiacere il compagno di partito.


Ognuno deve declinare quelle che sono le proprie convinzioni personali e metterle in comune.


Noi abbiamo bisogno di persone che vengono dall’esperienza della tradizione del movimento operaio, che mettono a nostra disposizione.


Ieri, adesso, per la prima volta dopo tanto tempo, ho sentito Giuliano Amato citare Marx.


E’ possibile che sia intervenuta una eclissi improvvisa per cui tutte le nostre biblioteche, tutti i nostri riferimenti, sono stati improvvisamente messi in soffitta?


Senza che quelli che di noi sono in condizione di dar conto della propria storia socialista, quelli che di noi sono in condizioni di raccontare la propria esperienza radicale, quelli che tra noi sono chiamati a dar conto della propria esperienza laico-repubblicana possano, sulla base di un comune denominatore democratico liberale, promuovere questo confronto?


Solo se noi riusciremo a costruire un partito capace di questo, riusciremo a portare a sintesi, quella sintesi nuova che è stata auspicata, quella sintesi che è stimolo per gli altri, perché si cresca nella federazione e ci si incontri alla ricerca della nostra identità in avanti.


I partiti non sono strumenti, ma anticipazioni della nuova società.


Ed è per questo motivo che io dico che il tempo alla rovescia, un tempo molto più lungo dei sei, dei quattro anni, dall’immediato è comunque già iniziato.


Ogni giorno che passa, senza che il nostro cammino avanzi, è un giorno perso.


Ogni giorno che passa, senza che possa essere messo a frutto, è un giorno perduto.


Grazie.